Ottant’anni fa usciva Tre ritratti di dittatori di Emil Ludwig, giornalista tedesco ebreo che ebbe accesso a tre dittatori che gli ebrei li disprezzavano: Adolf Hitler, Benito Mussolini e Stalin. Dittatori perché tutti e tre hanno oppresso le libertà individuali, anche se in maniera diversa. Uguali, tuttavia, di fronte alla Storia per «il disprezzo per le masse, la persecuzione dell’intelletto». Ludwig esegue un ritratto intimo degli uomini a cui in milioni guardavano senza mai poterne afferrare davvero la personalità. Tutti e tre, provenivano dal popolo che celebravano nei discorsi pubblici e che nel privato disprezzavano.
«Hitler non appare né come un tedesco, né come uno statista; men che meno un esemplare della razza che adora». Il dittatore tedesco era «un essere patologico che […] ha tradotto l’esagerazione malata di alcuni suoi impulsi». Odiava chiunque si trovasse più in alto di lui ed «ereditò il risentimento del padre», doganiere ubriaco e autoritario. Al giovane Hitler mancava il talento per entrare nella scuola delle Belle Arti di Vienna e così iniziò a prendere «i pasti negli spacci per poveri, offerti dal barone ebreo Königswärter. L’unico sforzo che fece per assicurarsi una sussistenza fu quello di dipingere cartoline o immaginette che un amico vendeva per lui». I problemi finanziari di Hitler sarebbero scomparsi qualche anno dopo grazie alla vendita del Mein Kampf. Il Führer «è diventato un milionario, ed è per questo che rinuncia al suo stipendio».
La Prima Guerra Mondiale aveva dato la sveglia al caporale austriaco. Durante la Grande Guerra Hitler si salvò miracolosamente: il gas nemico raggiunse le vie orali, ma non provocò grossi danni. Studi su Gustave Le Bon, musica di Richard Wagner; la svastica «la importò dalla Finlandia». E i finlandesi, «che sono in parte discendenti dai mongoli, la importarono dalla Mongolia». Nacque l’Hitler oratore. E «i tedeschi, i quali amano l’ordine più della libertà, gioirono nel ritrovarsi organizzati in nuovi ranghi di superiorità e inferiorità». Dopo la morte di Paul von Hindenburg – Presidente della Repubblica di Weimar, che da Junker disprezzava il plebeo Hitler – l’oratore delle birrerie fuse la carica dell’ex generale con la sua di Cancelliere.
«Mussolini è senz’altro la personalità più interessante», avverte Ludwig. «Freddo e cinico». La marcia su Roma dell’ottobre 1922 la diresse dallo studio milanese dell’Avanti! di cui era direttore. Noto per la rapidità con cui prendeva le decisioni, arrivò nella capitale, dove venne nominato Presidente del Consiglio. «Mussolini parla in un paese in cui quasi ogni uomo è un oratore nato». Il Duce, che non venne educato al cristianesimo, nella sua vita è stato tante cose: giornalista, insegnante, muratore. «A Orbe lavorò dodici ore al giorno in una fabbrica di cioccolato; a Losanna trasportò mattoni per due piani centoventi volte al giorno e dormì sotto un ponte quando era senza lavoro. In questo periodo, disse, portava sempre con sé un medaglione con l’immagine di Karl Marx». «La fame è un buon maestro», spiegava Mussolini, che a differenza di Hitler e Stalin non disdegnava l’avvicinarsi dei giornalisti.
E a tal proposito, scrive Ludwig, «quando gli chiesi come mai proprio lui, da […] giornalista, imbavagliasse i giornalisti del suo paese, lui si arrampicò dietro il pretesto che con la libertà di stampa essi scrivevano solo quello che gli industriali potenti e le banche, che possedevano i giornali, volevano che venisse pubblicato». Dei tre, Mussolini era il dittatore più narcisista. Al di là delle pose da neoimperatore romano sul balcone di Piazza Venezia, il Duce amava la sua immagine e l’immagine che dava di sé agli altri. «Un suo amico intimo una volta disse quanto Mussolini avesse sofferto da giovane per non avere la possibilità di farsi scattare delle foto. Questo è probabilmente il motivo psicologico per cui oggi non può smettere di farsi fotografare». Curiose le dichiarazioni dell’ex socialista in materia di differenze etniche.
«Il razzismo è roba da biondi» (con allusione ai tedeschi), disse Mussolini al giovane giornalista Indro Montanelli. «Nei suoi articoli, così come nelle nostre conversazioni, non c’è nulla che Mussolini critichi più bruscamente di qualsiasi forma di teoria razziale». «Certo che non esiste una razza rimasta pura», spiegava Mussolini. «La forza e la bellezza di una nazione è stata spesso causa della sua mescolanza con gli altri». E ancora: «Non potrò mai credere che il grado di purezza di una razza possa essere biologicamente dimostrato». Di antisemitismo «non v’è traccia in Italia. Gli ebrei italiani sono sempre stati buoni cittadini e hanno combattuto coraggiosamente come soldati». In merito, Mussolini prese poi altre drammatiche direzioni. E Ludwig lo aveva avvertito: se Mussolini «si immerge nell’avventura del suo imitatore, perirà con lui».
Nato in un paesino sperduto della Georgia alla fine dell’Ottocento, per diciassette anni Stalin «fu costretto a vivere utilizzando una sfilza di nomi sempre diversi». Con l’arrivo del Comunismo nella Russia zarista, entrò nell’estrema sinistra del PCUS, contestando i menscevichi, la minoranza riformatrice. Secondo Ludwig, Lenin «deve più al suo discepolo di quanto il suo discepolo deve a Lenin». Sin dai primi anni della presa del potere dei bolscevichi, l’antipatia e la rivalità reciproca tra Stalin e Lev Trockij si concretizzò nel partito. «Lenin offrì a Stalin solo un posto di secondo piano, vale a dire quello di Commissario del Popolo per le nazionalità, mentre Trockij, come ministro degli Esteri, si stava ritagliando un posto al fianco di Lenin quasi come suo co-reggente». Morto Lenin, Stalin scalzò l’avversario.
Sono parecchie le differenze tra i tre dittatori. «Mussolini insegna incessantemente a se stesso; Hitler incessantemente predica agli altri. Ogni visitatore che va da Mussolini viene da lui interrogato e interpellato; quando se ne va, Mussolini ha imparato qualcosa di nuovo. Ogni visitatore che va da Hitler dichiara che il megalomane ha tenuto la conversazione tutta per sé». Ludwig identifica tre tratti comuni dei dittatori: la grande capacità di odiare, la piccola capacità di amare, una fede inestinguibile in se stessi. «Stalin e Hitler hanno in comune sia la loro predominante passione per la vendetta […] e la loro mancanza di cultura. Stalin e Mussolini hanno in comune il coraggio, la pazienza, il realismo, la normalità sessuale, il disprezzo per il denaro […]. Hitler e Mussolini condividono la loro vanità, la mancanza di umorismo, la superstizione, il disprezzo per la folla e l’ideale che fingono di servire».
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su neXtQuotidiano)