Il crollo del Muro di Berlino fu la fine di un’utopia. Quella per cui i muri sono la soluzione ai problemi concreti. Il grande inganno che a Berlino aveva preso la forma di un massiccio muro di cemento rinforzato dal filo spinato e dalla terra di nessuno presidiata dai Vopos, crollò il 9 novembre di trent’anni fa nella polvere dei calcinacci della Storia. Il grande “impero del male” – citando Ronald Reagan, che in qualche modo contribuì a distruggerlo –, plasmato dalle idee di Karl Marx e Lenin, vedeva crollare il suo fiore all’occhiello – la DDR – dopo tre decenni in cui tentò di nascondere le sue vistose crepe e le contraddizioni economico-sociali. Obbligando milioni e milioni di individui alla fame e alla paura. Il 9 novembre 1989 migliaia di berlinesi, abbattevano il grande Muro, il grande incubo, che li aveva divisi dai loro concittadini dell’Ovest per quasi trent’anni.
Il martello, questa volta non congiunto con la falce, frantumava il simbolo della vergogna europea. Quell’Europa così civile, rinnovata, riappacificata con se stessa e il mondo dopo gli errori della guerra e dell’Olocausto aveva tollerato per troppo tempo quella sutura di cemento che umiliava – quasi fosse la metafora di un trattato di Versailles-bis – le due repubbliche tedesche. Quello al di là del Muro di Berlino, ma anche l’idea di muro in sé, era un sistema industriale antieconomico. Tenuto in vita per troppo tempo: pompato con i soldi della DDR e quelli di Mosca. Non si stava bene oltre, o meglio, sotto la cortina di ferro. Nemmeno a Berlino Est. L’uguaglianza nella povertà distrugge la libertà. E la povertà non era una scelta per gli sventurati nati nella Berlino sbagliata: era un’imposizione.
Verrebbe da chiedersi cosa ha portato di buono il regime che vigeva oltre la cortina di ferro – copyright di Winston Churchill –, se ancora oggi, dietro al nome di Soli Zuschlag – il contribuente tedesco paga una “tassa di solidarietà” (5.5 per cento del reddito) che dal 1994 serve alla ricostruzione solidale della ex Germania Est. Il Muro – oltre cento chilometri di cemento a Berlino e milletrecento di cortina di ferro tra le due Germanie – aveva diviso il popolo tedesco. Agli occhi del mondo: i tedeschi erano due. Non c’erano i tedeschi intesi come popolo unitario come lo potevano essere i francesi. C’erano i tedeschi federali e quelli democratici, dell’Est e dell’Ovest. Le fughe da Oriente ad Occidente che vedevano il Muro di Berlino come repressione della libertà di movimento, la fuga era un tentativo di liberazione.
La ricerca di libertà da un regime che aveva oppresso e umiliato il tanto celebrato popolo. Che, tra angherie e abusi di ogni genere, subiva anche la beffa di sentirsi dire che era risiedeva in una “repubblica democratica”. Notte magica, notte di speranza quella di trent’anni fa: erano questi i binomi che compaiono sui giornali del mondo all’indomani dalla caduta del Muro. Scrive Massimo Nava (Germania Germania): «Dal 9 novembre dell’89, il destino degli uomini non è più concepibile, come è avvenuto per secoli e per decenni, con i “muri” e con le “muraglie”: da una parte il bene, il progresso, la libertà, la democrazia; dall’altra parte il male, la penuria, la censura, la dittatura burocratica». Nell’autunno 1989 il primo mondo aveva vinto (o meglio: il secondo aveva perso). Il sistema “liberal-democratico-capitalista” avrebbe assorbito anche le aree di povertà più estrema delle ex repubbliche sovietiche.
E c’è chi continua ancora a sostenere, come Vladimir Putin, che la fine della Guerra Fredda e del Socialismo reale siano stati una catastrofe. Semplicemente, il sistema geopolitico attorno al patto di Varsavia (malato, malatissimo) non reggeva più. Praga, Budapest, Varsavia, Sofia, Bucarest erano stanche di subire una cultura che non era (più?) la loro. Molti nei paesi satelliti non credevano più alle profezie imposte dai burocrati-profeti del Comunismo, decretando, per seguire le parole di Nava, «il trionfo di una concezione della vita costruita giorno per giorno, con la responsabilità individuale e con il piacere di viverla». Fino a settembre 1989 il Muro sarebbe dovuto durare cento anni, come disse Erich Honecker. Un dittatore travolto dai calcinacci nella cinta che lacerava la Germania, che scappò – come fecero diversi nazisti quattro decenni prima – in America Latina.
Scrive ancora Nava: «Ai giovani, che sono nati dopo il Muro e che non hanno parenti dall’altra parte, non è bastato un regime dai tratti più gentili, che tollerava la vita notturna e persino l’omosessualità. Omologati nei comportamenti e nei sogni di consumo dalla televisione, sono diventatati sempre più indifferenti all’ideologia». Nonché alla serenità artificiale alimentata dal mito sovietico. E alle ventuno e trenta di sera del 9 novembre il primo settore berlinese, quello francese, aprì le cataratte della Storia e ruppe le barriere. In pochi attimi vennero gettate le basi per un nuovo stato. Quello temuto da François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, che avevano capito con anticipo che una Germania riunificata avrebbe ridisegnato il quadro europeo.
Furono circa cento milioni gli esseri umani che uscirono dal Comunismo tra il 1989 e il 1990. Numero analogo ai morti che i regimi comunisti hanno sulle loro coscienze. Curioso che ventisette anni dopo, tra l’8 e il 9 novembre 2016 a vincere le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sarebbe stato Donald Trump. Che sul concetto di “muro”, dimenticando la lezione di quello di Berlino (cioè che nel lungo termine è inutile), ha costruito parte del suo consenso. Il muro eterno non può esistere: è solo un concetto che prima o poi verrà spazzato via dalla forza della libertà e della Storia.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)