Un anno di Biden: Massimo Gaggi racconta un paese lacerato

Corrispondente dagli Stati Uniti da molti anni, nel suo La scommessa Biden (Laterza 2022) Massimo Gaggi analizza il primo anno della Presidenza di Joe Biden. I suoi giudizi sul quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti sono misurati e freddi. Il leader dei dem ha delineato un programma di riforme ambizioso e progressista. Di lui si è detto che fosse un Franklin Delano Roosevelt del ventunesimo secolo. E in effetti, entrambi i presidenti dem erano in età avanzata quando vennero eletti dopo due predecessori conservatori controversi – Herbert Hoover e Donald Trump. Biden è circondato da molti elettori repubblicani che non lo credono il vincitore legittimo delle presidenziali del 2020 – un quarto degli americani crede alla menzogna della stolen election. In un altro periodo divisivo in America nemmeno i confederati del Sud misero mai in discussione l’elezione di Abraham Lincoln. Questo dà la cifra della spaccatura sociopolitica odierna negli USA.

Dopo il lancio di una campagna vaccinale rapida e l’erogazione di assegni mensili del governo federale, per Biden sono cominciati i guai. Ovvero l’arrivo della variante Delta di Covid-19, la fiammata dell’inflazione, il ritiro dall’Afghanistan e la questione Ucraina. In autunno 2022 ci saranno le elezioni di midterm. Con ogni probabilità, stima Gaggi, i democratici perderanno sia la House che il Senato. In un paese stremato dalle contrapposizioni politiche, Biden è stato eletto perché rappresentava il vecchio saggio capace di abbassare i toni e ritornare a governare con buon senso e centrismo. Oggi è in crisi, ma molti gli riconoscono la modestia e l’umiltà dell’uomo qualunque. Biden è un brav’uomo, tutto sommato. Non è vendicativo, ma pragmatico: candidato e vincitore a sorpresa. Già senatore più giovane d’America, è rimasto al Congresso trentasei anni.

Voleva puntare alla presidenza dopo il ciclone di Ronald Reagan, ma la Storia andò diversamente. Nella sua vita, gli errori che ha commesso «non gli hanno mai sottratto la fama di persona per bene che, quando ha sbagliato, non lo ha fatto in malafede», scrive Gaggi. Nonostante le numerose gaffe, Biden ha una fama di un galantuomo. La sua lealtà è stata riconosciuta anche dagli avversari. Non sarà mai un fuoriclasse come Barack Obama o Bill Clinton, ma viste le ambizioni riformiste può essere una via di mezzo tra FDR e Lyndon B. Johnson. La frangia estremista dei democratici, rappresentata da Bernie Sanders, è una spina nel fianco per Biden. Ma il vero problema è, ancora, Trump. Se Joe è accostato a FDR e LBJ, the Trump è accostato a Reagan. Entrambi molto carismatici ed abili nella comunicazione, sono stati presi sottogamba in America e all’estero.

Tuttavia, Reagan era liberista, antistatalista e antisovietico. Trump invece dice di essere un liberista, ma le politiche del suo governo hanno visto un ampiamento del perimetro dello Stato, nonché un incrementato del debito pubblico. Inoltre, Trump si è mostrato molto amichevole nei confronti della Russia e di Vladimir Putin, usando il populismo bigotto e violento come strumento di governo. «Quando lasciano la Casa Bianca, i presidenti repubblicani spariscono, a volte sospinti e chiusi a doppia mandata nella soffitta delle memorie imbarazzanti», scrive Gaggi – vedi Richard Nixon, Gerald Ford, George W. Bush. Il palazzinaro newyorchese invece tiene botta. Trump ha cambiato, non da solo, il Partito Repubblicano di Reagan e dei Bush, ma anche di Bob Dole, John McCain e Paul Ryan. Ha coltivato la frangia di destra che ha origini in Barry Goldwater ai tempi di LBJ, in Newt Gingrich negli anni di Clinton, nei Tea Party durante Obama.

Oggi esiste solo il partito MAGA, il partito di Trump. Che ha il controllo assoluto del GOP, post-conservatore, oscurantista, intransigente e reazionario. Un altro problema per Biden è la VP Kamala Harris. Portabandiera dell’America multietnica, la signora pareva una figura molto promettente, ma in molti credono non sia all’altezza per il ticket nel 2024. Il che allarma la Casa Bianca. Su Harris e «sulla base della sua storia personale, si erano create aspettative eccessive», scrive Gaggi. Biden le ha da subito accollato compiti ingrati e scottanti – tipo quello dell’immigrazione, un tabù per i dem. Harris venne mandata nella primavera 2021 al confine con il Messico a dire ai disperati che volevano entrare in America di non venire perché non sarebbero stati accolti. Questo le ha inimicato la base di sinistra guidata dall’ambiziosissima Alexandria Ocasio-Cortez.

«Recuperarla dal tran tran del lavoro politico senatoriale per portarla alla Casa Bianca, l’ex vice di Obama non lo fece di certo per bontà d’animo: trovò in lei, donna, giovane e multietnica, un bilanciamento, nel ticket elettorale, alla sua immagine di vecchio capobranco bianco». I simboli in politica contano. E difatti un’altra questione analizzata da Gaggi è il ritiro dall’Afghanistan delle truppe statunitensi. Le immagini dei disperati che precipitano dagli aerei in partenza da Kabul nell’agosto 2021 sono ancora scolpite nella memoria di molti. Quali scelte aveva Biden? La decisione l’aveva già presa il suo predecessore. Biden ha applicato alla lettera: ritiro delle truppe dopo vent’anni di conflitto. Un’operazione caotica, mal organizzata: simbolo di un’America in ritiro su scala globale. In materia di politica estera, Biden ha parlato di una middle class’ foreign policy.

Ma anche meno globalizzazione e politiche commerciali che favoriscano i locals e che facciano rientrare parte dei colossi oggi in Messico o in Asia. Molti analisti hanno parlato di una “dottrina Biden” in materia di politica estera. Ma Gaggi smonta questo mito. «Andare alla ricerca di una dottrina Biden è un esercizio poco utile perché lui è sempre stato un politico pragmatico. Quindi, fedele ai principi di democrazia, libertà e tutela dei diritti umani, ha adattato le sue visioni e le sue strategie le circostanze del momento». Biden è stato colomba dal 1972 – contro la guerra del Vietnam – fino al 1991, quando si oppose alla decisione di Bush Sr. di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein. Poi divenne falco fino al 2002: fu favorevole all’uso della forza contro l’Iraq nel secondo conflitto del Golfo, nonché all’intervento militare dei Balcani contro la Serbia di Slobodan Milošević.

La terza fase – dal 2003 ad oggi – prevede una riedizione del Biden-colomba. Quando era vice di Obama fu contrario all’intervento in Libia di Muʿammar Gheddafi nel 2011. Ebbe anche forti perplessità sulle incursioni in Pakistan per eliminare Osama bin Laden. Biden si adatta alle circostanze. D’altronde, governa un paese diviso, stanco di guerre, lacerato. Gaggi ricorda che le operazioni militari in Afghanistan sono costate oltre duemila miliardi di dollari, circa il PIL dell’Italia. Oltre duemila americani sono morti. Simile il caso dell’Iraq: quattromila morti per eliminare Saddam. Sebbene Washington sia in evidente ritirata su scala globale, conserva altresì basi militari in tutto il mondo. Circa duecentomila soldati in centocinquanta paesi per proteggere le sedi diplomatiche statunitensi. Gli Stati Uniti non offrono più ombrelli universali. Il ceto medio in America è alle corde. Il tessuto economico è sfilacciato, le infrastrutture sono decadenti.

La grande sfida degli Stati Uniti rimane la Cina. Che in termini di Purchasing Power Parity ha superato l’America già nel 2014. Tutto questo al netto della vera e propria guerra culturale in corso nel paese. Cristoforo Colombo, George Washington e Robert E. Lee sono sotto attacco. Anche la Statua della Libertà è coinvolta in un’opera di revisionismo basato sulla cultura woke. Questa talvolta viene usata come sinonimo di cancel culture; prevede l’eliminazione di personaggi, testi e fatti “scomodi”. Un processo di purga; sommario, attraverso appelli sui social media e che negli ultimi anni si è appoggiato accademicamente sulla Critical Race Theory. La teoria sviluppata nei primi anni Settanta dal professore di Harvard Derrick Bell esamina come la supremazia bianca abbia infettato le istituzioni americane, solo apparentemente egualitarie.

La CRT venne rivitalizzata nel 2019 quando il The New York Times inaugurò al “1619 Project” in occasione dei quattrocento anni dall’arrivo nell’America del Nord dei primi schiavi. Firmato da Nikole Hannah-Jones, il progetto mette le conseguenze della schiavitù al centro dello sviluppo degli Stati Uniti. La CRT affascina la sinistra dem. D’altra parte, l’avversione verso wokecancel culture e CRT viene strumentalizzata dai trumpiani. Criticata anche dall’Obama Foundation, la CRT lambisce anche questioni di sesso, identità sociale e culturale. Critica il white privilege e denuncia un perpetuo dominio degli “oppressori bianchi”. Su The Atlantic Anne Applebaum (“The New Puritains”) ha denunciato queste condanne pubbliche senza appello. Il che allarma la democrazia liberale americana. Biden, tra centro e sinistra, fino ad ora non ha aperto alla cultura woke.

L’intesa con il mondo liberal, scrive Gaggi, l’ha trovata con Sanders su questioni di temi economico-sociali, non quelli legate alle istituzioni repubblicane e ai valori liberali democratici. Ma Biden sa che se abbracciasse CRT e simili si giocherebbe il supporto degli elettori moderati. Saranno questi a fare la differenza nelle elezioni del 2024. Biden dovrà fare compromessi per mantenere l’equilibrio precario della sua moderazione in tutti i campi. Dall’Afghanistan all’Ucraina, dall’inflazione alla Cina, le sfide che scuotono gli Stati Uniti non mancano. «Il presidente, che di certo non è un gigante ha fatto scelte programmatiche coraggiose», conclude Gaggi. Trump continua ad avere il monopolio delle discussioni pubbliche. Il paese è ancora lacerato. Anche dopo il 6 gennaio 2021, quando ci si aspettava maggiore collaborazione tra repubblicani e democratici.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su La Voce di New York)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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