L’Occidente unito deve capire la Cina per fermare Pechino

Fermare Pechino (Mondadori 2021) di Federico Rampini analizza la Cina di oggi da una prospettiva occidentale che guarda all’interezza del gigante asiatico. Il libro si snoda in una dozzina di capitoli: dall’idea di “razza” Han alla generazione millennial. Dalla nuova diplomazia cinese alla questione di Taiwan. Si passa poi ai segreti di Wuhan, fino a fantascienza e AI. Sotto la lente dell’autore, anche le rivalità tra Amazon e Alibaba. La riabilitazione di Mao Zedong – parziale modello di Xi Jinping – e la riscoperta di Franklin Delano Roosevelt – parziale modello di Joe Biden – passando per la crisi climatica e quella liberaldemocratica. Rampini racconta che ci sono tante sfide che accomunano e uniscono Biden e Xi. Tra queste: la lotta contro la pandemia, l’emergenza ambientale, la crisi economica innescata dai lockdown e le diseguaglianze nei rispettivi paesi. La Cina a cui l’America era abituata non è più quella degli anni Ottanta.

Oggi Pechino rappresenta un rivale sistemico per UE e Stati Uniti. Ha un impatto politico ed economico rilevante. Risulta allarmante di fronte a un paese come l’America che ha ancora addosso i traumi del 2007, la crisi della globalizzazione, una classe operaia impoverita e una sinistra radicale opposta a un populismo conservatore. Pechino ha segnato con il 2008 e le Olimpiadi la sua ascesa geopolitica. La questione delle disuguaglianze non è cosa aliena per la Cina che, a differenza di Washington, non ha immigrazione straniera. L’invecchiamento, così lo strapotere del Big Tech, tocca sia Washington che Pechino. Biden e Xi rivalutano il ruolo pesante dello Stato nell’economia. Xi usa il nazionalismo come collante per la coesione dei cinesi. Biden governa una nazione dove la metà degli elettori lo considera un usurpatore. Parlando di “razza” Han, Rampini ricorda che la questione razziale è al centro del conflitto tra le superpotenze.

L’autore ricorda l’incontro bilaterale del 18 marzo 2021 ad Anchorage, Alaska, dove i cinesi hanno risposto alle accuse sul mancato dei diritti umani nello Xinjiang con le questioni denunciate da BLM. «È finito il momento in cui la superba America si arrogava il privilegio di dare lezioni di democrazia i diritti umani al resto del mondo». L’America di oggi è vista come una potenza anziana. «La Cina, al contrario, si presenta come una potenza benefica e “apolitica” al tempo stesso. Porta commercio, investimenti in infrastrutture, aiuta lo sviluppo dei paesi poveri, ma non interferisce nei loro affari interni, non dà lezioni regimi con cui fa affari». Rampini spiega che in Cina sussiste un solido razzismo; molti cinesi sono «cresciuti nella certezza che vi siano le razze e che la loro sia superiore». Il partito comunista avvalla l’idea di superiorità razziale e la collega al concetto di “secolo dell’umiliazione”.

Il periodo aperto durante le guerre dell’oppio vinte dagli inglesi dal 1839 al 1860 e visto interpretato della leadership comunista come un doloroso incidente della storia che ha inaugurato un secolo di decadenza attribuibile ai Qing. Han e ideologia marxista con l’uso del capitalismo consente alla Cina di essere un dominus importante della scena globale. L’Han-centrismo prevede la riunione della diaspora cinese nel mondo. L’idea di fondo è un’idea nazionalista che legittima Pechino a spiare i propri cittadini. L’appello dei cinesi all’estero a riunirsi sotto la bandiera rossa fa parte del template utilizzato dai regimi autoritari che dicono di voler difendere i compatrioti perseguitati all’estero per giustificare il proprio espansionismo. Rampini avverte: il mondo «dovrà abituarsi a trattare con una superpotenza che ha un complesso di superiorità radicato di una cultura della razza». Diversa la situazione negli Stati Uniti, che è a tutti gli effetti un mosaico di minoranze.

Cina-Stati Uniti: «da una parte vi è la certezza della propria superiorità, dall’altra si celebra il rito dell’espiazione». Pechino intende piegare l’individualismo, tipico delle società occidentali e stimolare all’obbedienza cieca. In America, d’altra parte, «una nuova generazione viene educata a esecrare il proprio paese considerandolo un inferno di razzismo e discriminazione amare la patria, essere fieri della storia nazionale, oggi non è di moda tra gli studenti universitari americani». Rampini dedica un capitolo alle nuove generazioni cinesi. Parla del gaokao, l’esame nazionale da incubo per i giovani per l’ammissione all’università. Tutta la carriera scolastica precedente è finalizzata a superare quel test. La meritocrazia cinese è selettiva. «La spietata durezza della selezione diventa un incentivo perverso delinquere». Ad accostarsi a questo esame c’è anche la selezione delle élite basata sul familismo che privilegia i rampolli della nomenclatura comunista.

Questa selezione poi fa nascere nuove élite del partito della nazione si pone in antitesi rispetto alla “tribù delle formiche”. Ovvero una fascia di insicuri millennial, neolaureati che credevano nella promozione dopo il gaokao, ma che ora sono senza lavoro. L’immagine che la Cina vuole proiettare nel mondo è in continuità con l’immagine hollywoodiana dell’eroe positivo che libera gli oppressi, che sopravvive a pestaggi, ferite, mafie e narcos. Si esamini il caso di “Wolf Warrior”, action movie dove il buono è un cinese che rivela il suo paese dei cattivi bianchi. La forza del bene è la Cina, mentre gli altri sono i cattivi. Da questi due film è nato il termine diplomazia wolf warrior. Che identifica gli ambasciatori guerrieri che contrastano i messaggi dell’Occidente sfoderando aggressività notevole nelle relazioni internazionali. La Cina sta preparando il terreno per un’egemonia e un’omologazione culturale.

Film quali “Wolf Warrior”, avvallati da Pechino, sono un messaggio per l’estero. «Significa che il nuovo nazionalismo cinese non è solo un’operazione voluta dall’alto, ma ha una base di consenso di massa». Gli osservatori notano come questo uso della cultura indichi come la Cina voglia rimpiazzare l’America decadente per creare un nuovo ordine politico globale. In realtà vuole fermare i nuovi modelli con la forza tecnologica e militare. D’altra parte, è vero che l’idea per cui la nazione si deve attrezzare e liberare i suoi concittadini in ostaggio ha trovato il suo culmine nell’America di Ronald Reagan. «Se non vuole abbandonare i propri concittadini alla mercé di attentati, esecuzioni, rapimenti con richiesta di riscatto, la Cina deve attrezzarsi per una presenza militare sempre più visibile, ingombrante, invadente, in luoghi distanti dei suoi confini». Nella nuova Cina di Xi non valgono più le sagge parole di chi lo ha preceduto.

Deng Xiaoping diceva: «Nascondi la tua forza, aspetta il tuo momento». Quel momento è arrivato: è oggi. Deng era convinto che la Cina dovesse puntare ad una rinascita nel lungo termine, ma la “wolf warrior diplomacy” è un’accelerazione di quelle intenzioni. L’aggressività nelle isole contese tra Giappone, Malesia e Vietnam sono frequenti. La Cina mostra i muscoli e fa show-off della propria forza militare. È l’ora dei guerrieri lupo. E Taiwan lo sa bene. Un’invasione cinese di Taiwan potrebbe infliggere shock globali come lo fece l’11 settembre, il 2007-8 con il crac dei mutui e il Covid-19. L’Occidente non è compatto in questa sfida. Quasi nessuno, America inclusa, riconosce Taiwan. L’isola ha ventiquattro milioni di abitanti – Sardegna e Corsica messe assieme. Eppure, il PIL ha superato quello della Svizzera, Svezia e Arabia Saudita. Taiwan è tra le prime venti economie mondiali. Alla Cina fa certamente gola.

Anche perché Taipei ha la leadership globale nella produzione di semiconduttori, importanti e strategici per la futura superpotenza globale. Xi Jinping ha detto che la riunificazione con l’ex Formosa è necessaria. La provincia ribelle dove si rifugiarono le forze di Chiang Kai-shek era stata dominata da portoghesi, spagnoli, olandesi e francesi. Poi nell’Ottocento una colonia del Giappone. «Chi controlla Taiwan può dettare legge su alcune rotte navali est ovest di vitale importanza per i traffici asiatici», ricorda Rampini. Il ministro degli Esteri Wang Yi l’ha paragonata alla Catalogna. E ha ricordato che l’UE e gli Stati Uniti si erano schierati con Madrid, non con Barcellona, al momento del referendum per l’indipendenza. A differenza di Kai-shek, nessuno oggi a Taipei sta preparando una rivincita contro la Cina. Dopo una dittatura di destra con la legge marziale, a Taiwan venne instaurata una democrazia caratterizzata da libertà e rispetto per i diritti umani.

Il rapporto con Taiwan e l’America è molto informale, sebbene sia stretto. Non ci sono ambasciate vere e proprie tra i due paesi, ma in cambio del riconoscimento della Cina Washington ha sempre chiesto a Pechino di non riunificare Taiwan con la forza. Durante Mao e Deng le forze armate cinesi erano disorganizzate ed arretrate. Le vendite di armi americane a Taiwan le consentivano una superiorità tecnologica che compensava l’inferiorità numerica. Per anni la settima flotta americana nello stretto fece da mediatore. Oggi la flotta cinese ha superato le dimensioni di quella americana. Il confronto militare è favorevole ai cinesi. Senza rinforzi Taiwan resisterebbe poche settimane. Anche il Pentagono spiega che difendere l’isola in caso di attacco cinese sarebbe un’azione disperata. Xi prenderà Taiwan prima o poi. Rampini si chiede se l’Occidente è pronto a morire per Taiwan. Ma gli americani sanno di aver già perso in questo ambito.

Non siamo più ai tempi di Douglas MacArthur che voleva usare la guerra atomica contro la Cina e per questo ed altro venne licenziato da Harry Truman. I pareri su cosa fare in caso di un attacco a Taiwan discordi anche degli Stati Uniti. Charles Glaser ha detto che per una potenza in declino l’opzione migliore è ridimensionare gli impegni. Occorrerebbe, afferma Glazer, che Washington accettasse di non essere più la potenza dominante in quell’area, ritirandosi strategicamente. La Cina non è estranea ad aggressioni. Lo ha fatto contro Seul dal 1950-1953 e Nuova Delhi nel 1962. Ha poi aggredito i giovani di Piazza Tienanmen nel 1989 e ha represso Tibet e Xinjang nel 2008. Rampini avverte: «una volta trasformata l’isola in una base della marina militare cinese, da lì Pechino avrebbe un dominio sulle rotte navali dove transitano energia e materie prime essenziali per l’economia di Tokyo e Seul».

Tokyo non ha un trattato di difesa in caso di un attacco cinese nei confronti di Taiwan. Non si può neanche più sperare visto quello che successo a Hong Kong in una soluzione un-paese-due-sistemi, opzione violata proprio da Pechino nel 2019. Xi ha calato il sipario su quell’esperimento autonomista; America ed Europa si sono dimenticati della tragedia di Hong Kong. Il presidente cinese e i suoi sodali erano convinti che i giovani che protestavano a Hong Kong fossero dei depravati filoccidentali intrisi d’individualismo. Rieducare i ragazzi di Hong Kong fa parte dell’idea di Xi della nuova Cina. Creare l’uomo nuovo, l’Homo Sinesis, come scrive Rampini. Basato su tradizione confuciana comunista che cambia i libri scolastici e che rafforza l’autostima della nazione. Caduta Hong Kong, la Cina ha valorizzato le piazze finanziarie di Shanghai e Shenzhen, togliendo a tutti l’illusione che Hong Kong fosse indispensabile.

La maggioranza dei taiwanesi è ostile alla Cina e alla riunificazione anche visto il trattamento riservato ad Hong Kong. «L’attuale leader comunista non sente più il minimo bisogno di rassicurare, non spreca energie in una diplomazia morbida o soft power verso i taiwanesi. Averli spaventati non lo turba». È oramai quotidiana la violazione dello spazio aereo dei cinesi su Taiwan. La questione del Covid-19, poi, rimane ancora un mistero. il regime cinese ha insabbiato tutte le prove che derivavano da Wuhan. «La storia la scrivono i vincitori, e Xi Jinping ha vinto». È stato perso tempo prezioso e questo ha aiutato il regime a nascondere la verità. Rampini parla di «spudorate menzogne rilanciate dai media di Stato» per molte settimane ad inizio 2020. «L’assenza di una libera informazione e di una magistratura indipendente impedisce di mettere a fuoco le responsabilità dei dirigenti comunisti».

I cinesi sono stati estenuanti dai lockdown, ma anche simbolo dell’ottusità della nomenclatura comunista e dei burocrati del regime. Quanto al Covid-19, «Xi Jinping, una volta deciso che era il grande nemico da sconfiggere, lo ha affrontato con l’approccio “maoista” deleganti campagna di mobilitazione nazionale tutti uniti per vincere la guerra dunque nessuna distrazione, le risorse del paese dovevano convergere verso l’unica grande campagna, verso il nemico». Le parole d’ordine erano solidarietà, coesione, disciplina. Emblematico il destino di Li Wenliang, il medico che il 30 dicembre 2019 parlò per primo su WeChat a proposito di un nuovo coronavirus. Nel gennaio 2020 venne arrestato e interrogato. Dovette firmare un’autodenuncia e confessare il suo crimine, ovvero quello di aver detto la verità. Morì il 7 gennaio e il regime ne fece un eroe nazionale. «Cina, Covid e misteri è un trittico dal quale non riusciremo a liberarci per molto tempo».

Tutti e tre hanno a che fare con l’economia del paese. Questa è cresciuta parecchio negli anni Ottanta sotto Deng, che incoraggiò i giovani a studiare in America, Europa e Giappone affinché questi potessero portare in patria le conoscenze necessarie per la modernizzazione. Xi usa la scusa del Covid per fermare questi giovani rafforzare lo spirito nazionalista. In questo il presidente cinese ha bisogno dell’appoggio della grande industria del paese. Rampini parla del caso di Alibaba e dell’imperatore decaduto del capitalismo cinese, Jack Ma. Lo antepone al signore del capitalismo yankee, Jeff Bezos. Il primo si è scottato per aver volato troppo vicino al potere di Xi. Il secondo rappresenta il capitalismo americano dei multimiliardari. «Per la prima volta grazie a Jack Ma i giovani cinesi all’inizio del ventunesimo secolo hanno un idolo nazionale da emulare, invece di inseguire i capitalisti americani come Bill Gates e Steve Jobs».

Il modello di Ma, Alibaba-Ant-Alipay, è omnicomprensivo e cattura molte più relazioni che il cliente può avere in Internet. La subalternità che Ma rappresenta il rispetto alla centralità del Partito Comunista all’interno di qualsiasi struttura sociale cinese dà fastidio a Pechino. Nel 2019 in una conferenza Ma disse che «una delle ragioni per cui Alibaba è cresciuta tanto è che il governo non se ne veramente accorto». Infatti, poi l’imprenditore è finito in castigo. La vicenda di Ma è anche un segnale preciso: «La Cina riesce dove l’America finora quasi sempre fallito: piegare alla volontà del governo i big dell’economia digitale». In Occidente, il potere dei Big Tech è praticamente inscalfibile. «Il governo accusa Alibaba-Alypay di abuso di posizione dominante, per il modo in cui controlla i dati degli utenti e le catture in un rapporto esclusivo con i suoi servizi».

Il fatto che Xi abbia messo la museruola al Big Tech è un segnale per l’Occidente. «Lo strapotere dei chief executive, la trasformazione dei top manager in una nuova oligarchia, autoreferenziale incontrollata, è un male contro cui l’Occidente non ha ancora trovato una terapia. I comunisti la stanno cercando. A modo loro». Gli Stati Uniti si sono allontanati dall’antitrust aggressivo – le cui origini sono nel 1890, con lo Sherman Act. Fu Teddy Roosevelt ad attaccare lo strapotere dei baroni del suo tempo – banche e ferrovie. Oggi lo strapotere di alcuni colossi va contro le regole del libero mercato. Biden «ha bisogno di recuperare entrate per finanziare i piani avveniristici del suo New Deal, della modernizzazione dell’infrastruttura la gara tecnologica con la Cina, dell’equità sociale alla lotta contro la crisi climatica». Per questo, secondo Rampini, deve attingere alla tassazione delle grandi imprese che hanno un carico fiscale dell’otto per cento.

Il rilancio dell’efficienza delle democrazie che Biden sogna passa anche per un ridimensionamento degli interessi del Big Tech ed il grande capitalismo per favorire la maggioranza dei cittadini e ridurre le diseguaglianze finanziando investimenti pubblici. Rampini racconta di come il capitalismo cinese sia competitivo e imponente, ma senza lo Stato di diritto. Pechino non ha soffocato la creatività e la capacità di innovazione, ma come Washington deve evitare un’eccessiva concentrazione monopolistica e una dilatazione delle diseguaglianze per contenere una società sempre più complessa e sensibile a queste tematiche. Un elemento a favore di Washington e che preoccupa Pechino è la politica sociale del calo della natalità e registrato nel 2022. Dodici milioni di nascite, contro 14,7 milioni del 2019 in Cina. Per Rampini è una flessione pesantissima. La Cina deve invertire la propria politica demografica – che subisce ancora le pesanti eredità della politica del figlio unico.

La forza lavoro invecchia e questo non aiuta a migliorare la produttività. I giovani ignorano gli appelli gli incentivi a fare due figli, come oggi desidererebbe il governo di Pechino. Ciò implica una paura da parte del partito comunista per il futuro. Alla paura dell’invecchiamento si somma anche il divario città-campagna. In Cina la popolazione rurale rappresenta il trentasei per cento del totale. La soglia di povertà è a 4000 renminbi, cioè 620 dollari all’anno. Cifra pari alla metà di quella adottata dalla Banca Mondiale. Ha affermato il premier Li Keqiang: «La Cina ha eliminato la povertà assoluta, siamo solo relativamente poveri». Dunque, questo si tratta di una parziale vittoria nella guerra alla povertà una sfida per il Partito Comunista Cinese. Pechino fa fatica ad attuare, coordinare e far rispettare le proprie politiche per tutta la nazione – i governi subnazionali godono di un discreto margine per gestire l’economia.

Pechino mantiene ancora molte grandi aziende e non sempre efficienti ma sempre sorrette da aiuti statali. «La Cina, inoltre, non ha mai aperto il suo mercato come gli occidentali si aspettavano: né alle importazioni, né agli investimenti stranieri […] Pechino […] ha imposto alle multinazionali estere dei partner locali e l’obbligo di rivivere rivelare loro segreti industriali». Il che sottolinea l’importanza del ruolo dello Stato in campo economico in Cina. Così come la differenza ideologica nella struttura dello Stato tra accidente e Cina. Il primo non dà allo Stato un ruolo così importante nell’economia. «Non saranno gli autocrati a conquistare il futuro, sarà America». Celebrava così i suoi primi cento giorni di presidente Biden nel “new” New Deal che ha previsto l’erogazione di sei mila miliardi di dollari, circa il trenta per cento del PIL.

«Il timore che al Covid+lockdown seguisse una grande depressione ha scatenato una risposta governativa – già sotto Donald Trump – sovradimensionata e per certi versi esagerata. Il risultato: hanno ricevuto aiuti anche chi non ne aveva bisogno, o si è integrato più reddito di quanto ne era stato davvero perduto». L’altro piano di Biden, il Build Back Better – il piano per ricostruire meglio un’economia adeguata alle sfide del futuro – prevede un investimento di oltre duemila miliardi in dieci anni. I piani economici dei democratici e di Biden riabilitano il ruolo dello Stato, ma non ne fanno un guru come hanno fatto i cinesi. I modelli del presidente sono FDR e Lyndon B. Johnson. Tuttavia, Biden dovrebbe tenere conto che è difficile legare ancora di più il ruolo dello Stato. Roosevelt partì da un’amministrazione pubblica minuscola, ricorda Rampini. Creò dal nulla agenzie federali che prima non esistevano.

Nell’agenda di Biden «c’è una rivoluzione a 360 gradi. Il lato economico e sociale e segnato dal pensiero socialista: meno diseguaglianze, grandi spostamenti di risorse dei ricchi a tutto il ceto medio e medio basso, attraverso nuove tasse nuove spese. Poi c’è la rivoluzione verde della sostenibilità, che in certi casi rischia di essere pagata proprio dagli operai […]. Poi c’è l’antirazzismo, che coniugato dall’ideologia radicale di Black Lives Matter esige un mea culpa permanente di tutti i bianchi […]. Nonché un ridimensionamento delle forze di polizia […]. Poi c’è l’apertura delle frontiere agli immigrati, che nel linguaggio dei leader più radicali (Alexandria Ocasio-Cortez) diventa un progetto di reinvenzione demografica della nazione per renderla “a maggioranza di colore” […]: Tutto questo […] crea un mix ideale per provocare una sindrome di assedio tra coloro che si sentono esclusi e bersagliati dalla rivoluzione in arrivo».

L’America ha riassorbito in maniera record i disoccupati del post-Covid. Ma ristampare moneta a gogò, scelta criticata da Larry Summers, mostra oggi tutti i lati negativi. L’inflazione è un qualcosa con cui dovrà trattare prima o poi. Gli eccessi dell’assistenzialismo hanno consentito a molti disoccupati ricevere un’indennità pari al centotrenta per cento del loro salario precedente. Il “Geopolitical Risk Indicator” di BlackRock mette i vertici dei rischi il divorzio tecnologico tra Cina e Stati Uniti. Biden ha deciso di rendere permanente l’uso di una legge di guerra, la Defense Production Act che risale alla guerra di Corea ricorda Rampini. «Quella legge consente di requisire materie prime, semilavorati, componenti e prodotti per motivi di sicurezza nazionale». Questo fa capire l’esigenza di vincere anche sul piano energetico la sfida lanciata da Pechino. Per i piani che Biden ha in testa occorrono però finanziamenti.

In America c’è una discussione sulle tasse: Biden vuole raddoppiare il prelievo fiscale sui capital gain, ovvero le plusvalenze che derivano dagli investimenti finanziari – ma il presidente si deve scontare scontro il fatto che le imposte sui redditi non sono tutte uguali in tutti gli Stati. Dunque, i cittadini sono diverso di fronte al fisco. Specialmente negli Stati i governanti delle sinistre (e.g. California o New York) si pagano Irpef secondo gli scaglioni di Stato. Negli stati di destra (e.g. Texas e Florida) si paga solo l’Irpef federale. Questa differenza nel tassare le persone rivela un’America divisa. Una mente che deve correre nella sfida per la Cina dal profilo economico e politico. La pandemia di Covid-19 ha cambiato le carte sul tavolo e la gara per i vaccini ha segnato un trionfo americano dal momento che queste differenze di quelli cinesi funzionano meglio.

Dal Covid, la Cina ha aumentato il peso relativo del suo PIL rispetto a quella mondiale dal 14.2% del 2016 al 16.8% del 2020. Gli Stati Uniti invece sono rimasti pressoché allo stesso livello, attorno al 22%. Pechino aveva ricominciato a produrre mentre l’Occidente era paralizzato. «La Cina ha trasformato la pandemia in un trionfo sul piano commerciale. Dopo di lei anche l’America è riuscita a replicare l’exploit, ha tramutato la crisi in un’opportunità, ha recuperato in fretta il suo ritardo, con una turbo-ripresa e ritmi di crescita “cinesi”». I dati sulle importazioni cinesi sono passati dal 2.7% del 2018 al 15% del 2020. I «dazi americani hanno colpito beni made in China per un valore di 370 miliardi di dollari […]. I dati cinesi all’inizio erano quasi il triplo, otto per cento in media sulle importazioni degli Stati Uniti del 2018, poi sono saliti fino al venti per cento».

Alla fine del 2020 la Cina «aveva importato solo il sessantaquattro per cento delle derrate agricole americane che aveva promesso di comprare sessanta per cento dei prodotti industriali e il trentanove per cento dell’energia». La Cina, dunque, tra i suoi impegni ma il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Repubblica popolare, da un massimo di 419 miliardi di dollari nel 2018 si è ridotto un anno dopo del diciotto. La Cina è imbattibile? Lo sembrava anche la Germania nazista. Da cui Pechino sembra aver preso i campi di concentramento. Nello Xinjang migliaia di uiguri sono prigionieri nei campi per la produzione del cotone di cui la Cina produce il quaranta per cento dell’export mondiale. La Cina corre e ad ogni mossa americana ne fa corrispondere un’altra. Pechino vuole conquistare la leadership mondiale dell’AI.

Nel 2020 la Cina ha superato gli Stati Uniti in termini di investimenti pubblici per la ricerca. I brevetti depositati da parte cinese hanno superato gli americani di centomila unità all’anno. La Cina ha messo il turbo in termini di lungimiranza e perseveranza atterrando gli occidentali in parecchi campi. Il piano “Made in China 2025” è già vecchio. Un capitolo fondamentale su cui si giocherà la sfida del futuro e anche quello climatico. Esaurimento delle risorse naturali i danni dell’inquinamento e alla salute e sfruttamento della terra sono questioni centrali nel dibattito della guerra fredda tra Cina e Stati Uniti. Oggi la questione climatica è nei manuali scolastici. Pentagono e NATO le hanno messe tra i loro obiettivi, sia Xi che Biden, sia Ma che Bezos la ritengono imprescindibile. La nuova guerra fredda si giocherà anche sulla battaglia della sostenibilità.

Quando Trump annunciò l’uscita dagli accordi di Parigi del 2017 Xi colse l’occasione per presentarsi come paladino dell’ambiente. A Davos Xi sfoggiò il suo greenwashing. Ma non viene mai detto che al termine del quadriennio di Trump gli Stati Uniti erano ormai scesi alla metà delle emissioni carboniche della Cina. Washington produce il quattordici per cento contro il ventotto totale mondiale della Cina. La riduzione delle energie fossili è una tendenza che va avanti da anni e che non è stata invertita in maniera compromettente da Trump. L’economia del futuro è basata sulla sostenibilità e l’autonomia energetica. Gli Stati Uniti l’hanno raggiunta da anni dal momento che hanno smesso di importare petrolio arabo. La Cina invece è l’opposto. È la più grande importatrice di energia del pianeta. Dunque, ha bisogno anche per motivi geopolitici di contatti con Medio Oriente e Golfo Persico.

Xi ha detto che la Cina raggiungerà il picco delle emissioni nel 2030 e da lì inizierà il declino. Con Nuova Delhi, Pechino ha rispolverato un linguaggio accusatorio nei confronti dei paesi più industrializzati che secondo loro sono i veri responsabili dei disastri odierni. Per combattere questa ed altre narrazioni cinesi l’Occidente deve unirsi nella battaglia per salvare il modello liberaldemocratico come modello efficiente. Nel suo viaggio estivo del 2021 Biden ha incontrato gli alleati al G7 in Cornovaglia. Poi a Bruxelles i vertici NATO, UE e Vladimir Putin a Ginevra. Oggi la democrazia in salsa liberale è in grave crisi in quanto minacciata dagli autoritarismi. Per gli Stati Uniti il 2020-2021 è stato tempestoso. L’insurrezione del 6 gennaio è una ferita indelebile nella Storia americana e la pandemia è emersa come una sfida geopolitica. Oggi Biden adotta un protezionismo non dissimile da quello di Trump.

Questo Xi lo sa e sta prendendo contromisure. La nuova Cina fa paura all’Occidente e l’America, con i suoi alleati, deve reagire di fronte alla minaccia illiberale che Pechino sta concretizzando nell’ambito di una nuova seconda guerra fredda. «Deng tentò di porre dei limiti alla deriva dittatoriale […], voleva impedire lo scivolamento dall’autoritarismo alla tirannide». Sono due le novità politiche dell’era post Deng: il limite del doppio mandato al leader supremo e la direzione collegiale. L’Occidente tragga lezioni da questa Cina autoritaria illiberale. Faccia vedere al mondo che la democrazia liberale può sconfiggere su più piani l’autoritarismo. La Cina ha coesione nazionale notevole in un mix di comunismo, confucianesimo, capitalismo e controllo. Chiosa Rampini: «L’attuale imperatore rosso sembra impegnato in una corsa contro il tempo, per consolidare il suo potere personale e al tempo stesso la potenza della Repubblica popolare nel mondo, approfittando del declino americano».

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su La Voce di New York)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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