Sebbene qualche movimento minoritario negli anni Trenta si rifacesse al Nazismo, l’anziana democrazia oltre l’Atlantico il Fascismo non l’ha mai conosciuto. Il che non vuol dire che ne fosse immune. D’altra parte, questo non ha impedito l’abuso di un termine, “fascist”, recentemente in voga per screditare l’avversario. Nel suo passaggio dall’Europa all’America, il termine ha cambiato significato, assumendo connotazioni lontane dalle ragioni storiche a cui è legato. “Fascism”, in America, non è un richiamo al Fascismo italiano del 1922-1945. Come tutti i movimenti totalitari, il Fascismo è male assoluto. E per questa ragione, l’uso a casaccio della parola “fascista” non rende giustizia alla Storia e a chi sotto il Fascismo è perito. Occorrere più cautela nella scelta dei termini. Oltre che storicamente incongruo, tacciare l’avversario di “Fascism” oggi è fuori tempo.
Specialmente in America, dove questi non hanno mai avuto rilevanza politica tale da instradare gli Stati Uniti verso la via totalitaria. Gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Good-bye Europa) hanno spiegato come mai il Comunismo non abbia attecchito negli Stati Uniti. «Mentre un operaio francese non poteva praticamente andare da nessun’altra parte, un operaio contadino della costa orientale degli Stati Uniti poteva emigrare nell’Ovest […]. Lì […] diventava un proprietario terriero […] refrattario all’intervento dello Stato […]. La stessa geografia del territorio rese difficile […] la diffusione del movimento comunista. In Europa le distanze […] brevi […] rendevano molto più facile […] organizzare un movimento di lavoratori». Nel Vecchio Continente, «la miseria e l’instabilità politica che seguirono la Prima Guerra Mondiale crearono un terreno fertile per l’affermazione dei movimenti comunisti». Abusare oggi del termine “fascista” si connette ad una certa politically correctness propugnata da alcuni circoli progressisti e “dem”.
Che negli anni hanno sviluppato una “bi-cultura della colpa”. Da una parte, il dare la colpa per tutti i drammi sociali “ai fascisti” laddove l’avversario politico non è fascista. Dall’altra, nei confronti di se stessi come americani per le segregazioni del passato. La “bi-cultura della colpa” prevede da una parte l’uso strumentale della scomunica nei confronti del conservatorismo mischiato all’integralismo cristiano. Dall’altra, il desiderio vittimistico di stabilire ugualitarismo nella società. A tal proposito, Federico Rampini (La notte della sinistra) ha spiegato che «nella sua versione estrema, la sinistra americana batte tutte le sue sorelle europee. La rappresentazione della Storia come una catena di crimini dell’uomo bianco ha il suo centro vitale nei campus delle […] università […]. “Uomo bianco” è diventato un marchio infamante, lo si usa come un insulto».
La manipolazione verbale dei concetti a proprio favore non è ad esclusivo appannaggio del GOP trumpiano. L’estremizzazione del dibattito politico americano vede in tal senso anche nei “dem” attori equamente coinvolti. In aggiunta, per troppi di loro, il politicamente corretto è diventato una religione, che impedisce di entrare nel cuore delle questioni, accettare spiegazioni scomode, nonché di guardare al proprio passato nazionale con serenità. Accusare l’avversario di “Fascism” è tipico della “bi-cultura della colpa” e del politicamente corretto, ossia l’interpretare in malafede fatti e costumi di ieri con le lenti dell’oggi. La cancel culture a cui sono sottoposti diversi monumenti raffiguranti personaggi storici – tra l’altro tutti accusati indiscriminatamente di “Fascism”, da Robert Edward Lee a Winston Churchill, da Leopoldo II ad Abraham Lincoln, da Cecil Rhodes a Indro Montanelli – è legata alla politically correctness.
Questa non è in grado di riconoscere che i costumi cambiano e crimini di certe icone vanno ricordati e condannati, non cancellati. E questo, proprio per la necessità di 1) non piombare in un nuovo – vero – “Fascism” e 2) imparare dalla Storia. La cultura del «sei un fascista» di parte dei “dem” impedisce analisi di periodi e personaggi controversi. Per via del politicamente corretto, si è arrivati a censurare The Great Gatsby e Hans Christian Andersen a favore di un vittimismo che nulla ha a che vedere con le legittime battaglie antirazziste, piuttosto che anti-totalitariste. «L’ideologia del vittimismo è diventato un diritto», ha scritto Alberto Pasolini Zanelli (Americani). «Chi si sente vittima trova la spinta di essere intollerante» e a sanzionare chi la pensa in maniera diversa. I deplorables di Hillary Clinton, quelli che «si aggrappano alle loro armi, alla loro birra, alla loro Bibbia», secondo Barack Obama.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su neXtQuotidiano)