I cento anni della tragedia sul fronte occidentale

11 novembre 1918: domenica prossima saranno i cento anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale e la pace sul fronte occidentale. Cento anni fa l’Europa alzava le braccia: esausta, ferita, devastata dal dolore e dallo strazio dei caduti di tutte le sue nazioni. Il raccolto decimato, l’economia a picco, le infrastrutture inagibili, le famiglie distrutte. La Germania (a cui, nel Trattato di Versailles del 1919 verranno addebitate tutte le colpe del quadriennio di sangue) firma l’armistizio imposto dagli alleati a Compiègne, nell’Alta Francia il 7 novembre con entrata in vigore alle 11:00 di quattro giorni dopo. Ma tutto era iniziato dallo sparo di Sarajevo del 28 giugno 1914. Le vicendevoli dichiarazioni di guerra tra l’Impero Austroungarico e la Serbia arrivarono un mese dopo. L’Europa era ancora in guerra contro se stessa e le sue culture. Quattro anni sono lunghi e le alleanze variarono.

Da una parte, gli Alleati: l’impero britannico di Giorgio V (che nel 1917 per via di forti sentimenti antitedeschi cambiò il nome della casa regnante da Sassonia-Coburgo-Gotha in Windsor), la Francia di Raymond Poincaré, la Russia zarista di Nicola II, gli Stati Uniti di Woodrow Wilson, l’Italia di Vittorio Emanuele III di Savoia. Dall’altra gli Imperi Centrali: quello tedesco-prussiano di Guglielmo II, quello austro-ungarico di Franz Joseph, quello ottomano e Regno di Bulgaria di Ferdinando I. Neutrali rimasero l’Olanda, la Danimarca, la Norvegia, la Svezia, la Spagna, l’Albania, la Svizzera. Un bilancio definitivo delle vittime della Grande Guerra è quasi impossibile da comporre, ma si parla pur sempre di decine di milioni di uomini. Le nazioni che soffrirono più perdite furono il Reich guglielmino, che mobilitò tredici milioni di soldati. Poi l’impero zarista, venti; la République, otto; l’impero inglese, sei; gli Stati Uniti, 4.3; il Regno d’Italia, 5.6.

Quando iniziò la guerra, il più grande impero del mondo (quello dove non tramontava mai il sole, visto che si estendeva dal Canada alla Nuova Zelanda, passando per il Sudafrica e l’India) vantava 350mila soldati. Un numero che dovette moltiplicarsi per venti: a farne maggiormente le spese, le categorie tra i diciotto e i quarantuno anni. Quando si ricorda la Prima Guerra Mondiale sono tre le immagini che raggiungono la mente. Fame (nelle trincee, valli della morte), malattia (l’influenza spagnola) e genocidio (l’Olocausto degli armeni e dei cristiani assiri). Il grosso della guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre, come si diceva all’epoca, fu combattuto nelle trincee. Un logorante simbolo della contesa territoriale, ideato proprio a principio del ventesimo secolo.

Delimitate da sacchi di sabbia e filo spinato, le trincee erano fosse insalubri che deturparono tutta la regione a cavallo tra Germania e Francia e furono teatro di orrende battaglie, come quella della Marna o di Verdun. Luoghi putridi, fangosi, veicoli di malattie e infezioni. Casa di uomini e ratti. Là dove, soldati ricevevano, tra l’altro, i pacchetti postali che la famiglia spediva e sigillava con amore al marito, al padre, al fratello, al figlio. Dodici milioni le lettere che invadevano sul fronte occidentale ogni settimana. La Grande Guerra è stata il sanguinoso intermezzo tra quella franco-prussiana (1870-1871) e la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). Della prima aveva ancora gli aspetti più rurali (cavalli, spade, pennacchi, mostrine, elmetti in alluminio). Della seconda le atrocità più devastanti (l’uso del gas venne convalidato allora, così come le intercettazioni delle comunicazioni).

Novità della guerra moderna sul fronte occidentale anche il lanciafiamme, invenzione del 1901 di Richard Fielder. Usato in special modo dai tedeschi, era un’arma inedita e venne usata per la prima volta nel 1916 a Verdun. Uno strumento che venne usato poco per via del suo ristretto raggio d’azione nella vasta terra di nessuno che separava i fronti. In particolare, le forze tedesche erano ancora più temute per via della grande Berta. Un obice sviluppato segretamente dalla famiglia Krupp, che sparava proiettili fino a novecento chili in un raggio di dodici chilometri. Non pochi danni dovuti all’approccio moderno alla guerra. Molti reduci sono tornati a casa con lesioni fisiche e psicologiche. Dagli incubi notturni, alla perdita di memoria, dall’insonnia alla perdita di controllo, dalle allucinazioni all’incapacità di concentrazione.

Un inferno: la guerra continuava dentro se stessi, come testimoniano anche i lavori artistici su tela di Egon Schiele. Molti soldati non sopportarono il ritorno alla normalità del quotidiano e decisero di farla finita. Altri invece si prestarono alla prima chirurgia estetica che prendeva piede all’epoca assieme al sistema di protesi che avrebbero sostituito gli arti amputati per via della cancrena. Tra il 1916 e il 1917 che nasce la prima banca del sangue, ad opera del medico Lawrence Bruce Roberston, che curò col sistema delle trasfusioni con successo alcuni soldati canadesi impegnati sul fronte francese. Il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale è utile per constatare quanti, combattendo in Europa, sono stati poi giunti alla ribalta politico-mediatica degli anni successivi.

Tre nomi su tutti: Harry Truman (futuro VP sotto Franklin Delano Roosevelt e poi Presidente americano nella Guerra Fredda), John Ronald Reuel Tolkien (autore de Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e Il Silmarillion) e Adolf Hitler (caporale disoccupato e rancoroso, poi Führer di Germania). A farne le spese durante la guerra, artisti come Franc Marc, Umberto Boccioni, Isaac Rosenberg, Raymond Duchamp, Guillaume Apollinaire. Questi decessi furono particolarmente significativi, in quanto rappresentano la fine di un mondo. La fine degli imperi, l’estinzione di un assolutismo divino. La fine dell’Ottocento e della Belle Époque. La fine di quel sistema quasi feudale che radunava etnie profondamente diverse in grandi recipienti territoriali.

Al termine della guerra sul fronte occidentale nascono nuovi stati: più piccoli, più attaccati al centralismo della loro etnia. Si tratta di Lituania (16 febbraio 1918), Estonia (otto giorni dopo), Bielorussia, Georgia, Azerbaigian e Armenia in maggio, Cecoslovacchia e Regno dei Serbo-Croati e Sloveni nel tardo ottobre, lo Yemen del Nord (1° novembre 1918, che si unirà nel 1990 con quello del Sud), la Polonia (11 novembre, con l’accesso al corridoio di Danzica tra Prussia Occidentale e Prussia Orientale) ed infine la Lettonia.

Oggi sono cento anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale per l’Italia. Terribilmente attuali suonano le parole di Winston Churchill, che disse: «Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio». Un cinico commento sugli alleati voltagabbana che, se non altro, perirono a centinaia di migliaia sul fronte del Nord Est e oggi riposano nel sacrario del Redipuglia. Sugli scalini che costruiscono il monte in provincia di Gorizia (aspramente conteso nelle battaglie d’Isonzo) – dove si trovano le spoglie di oltre centomila caduti e dove all’apice sono poste tre croci che richiamano la passione di Gesù Cristo – ad emergere dalla pietra grigia, la parola “presente”.

“Presente”: l’urlo energico del soldato che balza all’appello del superiore. “Presente”: il tempo odierno, l’istante dell’epoca. Il monito che dovrebbe evitare qualsiasi guerra. Anche nell’estate di 1914 si credeva, come nel 1939, che la guerra sarebbe stata breve. Non era così: presto, uno dei più grandi conflitti della Storia dell’umanità sarebbe diventata una devastante guerra di posizione. Oggi come allora, stati litigiosi e desiderosi di annettere l’altro con la forza e al contempo predicando il nazionalismo e il rafforzamento delle barriere si fanno piccole guerre commerciali. Abbiamo capito poco del sacrifico di milioni e milioni di esseri umani. Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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