Il 26 novembre di centocinquant’anni fa nasceva a Caltagirone Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare Italiano. Protagonista della vita politica prefascista, era rientrato in Italia dall’esilio il 6 settembre 1946, dopo oltre vent’anni all’estero. Chiamato “il professore” e nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, non risparmiò né prima né dopo l’espatrio aspre critiche alla classe politica italiana. Poco dopo essere entrato nella DC approdò al Gruppo Misto del Senato. Le degenerazioni della politica, definite come malabestie – lo sperpero del denaro pubblico, lo statalismo e la corruzione, l’accumulo di cariche e il clientelismo – erano tra i mali che Don Sturzo diagnosticò al Belpaese. Indro Montanelli lo descrisse come: «alto, magro, diritto, gli occhi neri e vivacissimi a cavallo del celebre naso che costituì la gioia dei caricaturisti; la chioma folta […]; il pensiero alacre; la parola incisiva e appassionata».
Don Sturzo non era tollerato nel suo partito, figuriamoci dall’opposizione. I rapporti con il PCI erano pessimi. Infatti, negli anni Cinquanta il sacerdote si espresse contro l’apertura della DC a sinistra. Ben prima di Enrico Berlinguer, Don Sturzo aveva sottolineato la questione morale, che non coinvolgeva solo i partiti di governo, ma anche quelli di opposizione che nei primi anni della Repubblica veneravano Stalin. Don Sturzo era anche contro le aperture al PSI, ancora allineato al blocco sovietico negli anni Cinquanta. Anche un’unione della DC con il Partito Socialista avrebbe causato parecchi danni, sosteneva. Più liberale che democristiano in campo economico, era preoccupato per la riduzione nel campo dell’iniziativa privata. In un intervento dell’11 luglio 1958 al Senato, non esitò a definire le politiche di orientamento di centrosinistra come controproducenti e demagogiche. E alla demagogia si lasciò andare presto anche la sua DC, in cui non aveva correnti come altri.
Amintore Fanfani (DC di destra) e Giovanni Gronchi (DC di sinistra) sembravano essere d’accordo nel voler porre dei freni al sacerdote. Don Sturzo era indigesto anche al Presidente dell’ENI, Enrico Mattei. Il fondatore del PPI è scomparso a principio della Prima Repubblica, ma egli aveva già diagnosticato i mali che affliggevano il Belpaese. «La tessera del partito democristiano non è obbligatoria come lo era quella fascista, ma è altrettanto sicuro che chi ne è in possesso trova in ogni campo facilitazioni e benemerenze». Nel 1946 scrisse che «l’affarismo come metodo di procurarsi profitti privati attraverso la politica ha avuto via libera sotto la sonnolenta indulgenza degli organi dirigenti. Cumuli di cariche retribuite, […] traffico di influenze nelle anticamere dei ministri, accaparramento manovrato da uomini politici e da loro prestanome in favori statali a beneficio di privati sono tutte cose abituali delle quali nessuno più si meraviglia».
La critica di Don Sturzo nei confronti dell’apparato politico è anti-populista (un populista vorrebbe più spesa pubblica e più Stato). «Tutto il popolo è potenzialmente un’élite; il popolo in democrazia deve arrivare alla formazione basilare di una coscienza politica collettiva. Però esso, come massa informe, non può agire sul piano politico; occorre che sia organizzato» (Politica e Morale). Pochi vollero ascoltare Don Sturzo nella sua condanna dello statalismo, nel suo disprezzo per l’uso privato dei beni pubblici. Non-liberista – ma con tendenze liberali – e non un socialista – ma con attenzione a questioni sociali era lungimirante: combattuto, offuscato e dunque ignorato dai suoi stessi colleghi di partito. «Ho avuto sempre fiducia […] nell’avvenire; […] ho sentito e sento la vita politica come un dovere e il dovere dice speranza. […] Sono certo che la mia voce, anche se spenta, rimarrà ammonitrice per la moralità e la libertà della vita pubblica».
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)