Il 10 giugno del 1940 finiva la fase ambigua non-belligeranza dell’Italia fascista, ansiosa di vincere la guerra lampo. Sebbene questa avesse firmato un anno prima, 22 maggio 1939, il patto d’acciaio con Adolf Hitler, molti in Europa non credevano ad un impegno bellico dell’Italia. E anzi, speravano che potesse mediare tra Gran Bretagna e Germania. A giudizio di diversi osservatori politici dell’epoca il Belpaese non sarebbe stato in grado di sopportare lo sforzo bellico, nonostante le manie imperialistiche di Benito Mussolini. Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, il Terzo Reich si era già esteso su tutto il continente. Ad Austria, Boemia e Moravia sommò in quattro e quattr’otto Polonia, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Lussemburgo e Belgio. Sembrava oramai tutto concluso: dopo la caduta di Parigi, la svastica dominava l’intera Europa e si preparava a sferrare l’attacco contro Londra.
Tentativi di avvelenare le relazioni tra l’Italia fascista e la Germania erano stati fatti da più attori in passato. I più timidi furono quelli di Neville Chamberlain, il Primo Ministro inglese che più di tutti fu incapace di costruire una diga alla smania totalitaristica di Hitler. Secondariamente, Mussolini non dispiaceva a Winston Churchill, specialmente per le sue tirate antibolsceviche. Lo statista britannico sapeva che il Duce aveva portato con relativo successo un paese povero che aveva in sostanza perso la Grande Guerra di fronte alla più alta diplomazia e prestigio internazionale. Tuttavia, il nuovo inquilino di Downing Street era anche conscio che gli italiani vanno in guerra come se dovessero giocare una partita di pallone, giocando d’altra parte a pallone come se dovessero andare in guerra. L’entrata in guerra dell’Italia complicò la carta geopolitica dell’epoca.
Stalin si fidava ancora di Hitler, in ossequio al patto Molotov-von Ribbentrop dell’agosto 1939 e consentiva al Führer di tenere chiuso il fronte ad Est. L’Italia fascista aveva intense relazioni con il Reich, tanto da adottarne il pacchetto delle leggi razziali nel settembre 1938, cosa mal digerita da molti italiani. In questo senso, l’alleanza con Berlino fu del tutto incoerente e contraria alla cultura italiana. L’Italia non era antisemita, ma si era sempre di più allontanata da Parigi e Londra, anche a causa delle dure reazioni internazionali in seguito alla campagna in Abissinia; in un’Africa dominata da decenni dalle forze francesi e britanniche. Con riferimento alla Lega delle Nazioni, che condannò l’Italia, Mussolini disse sarcasticamente che alla stessa «va molto bene quando sparano i passeri, ma non quando le aquile scendono in picchiata». Quattro giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia le truppe tedesche marciavano attorno all’Arc de Triomphe.
Hitler non sarebbe mai più tornato a Parigi. Procedeva spedito nella conquista territoriale ad Ovest ed in quei giorni estivi era orgoglioso dell’umiliazione impartita alla Francia, che firmò l’armistizio a fine mese. Parigi non era la capitale di una nazione qualunque per la Germania. Era quella che più di tutti aveva inasprito le clausole del trattato di Versailles compiendo l’errore di sanzionare in maniera sproporzionata la neonata Repubblica di Weimar, in preda alla disoccupazione, alle macerie, ai debiti di guerra ed in seguito all’inflazione, che avrebbe contribuito a far lievitare i consensi attorno al Partito Nazionalsocialista. La dichiarazione di guerra di Mussolini fu una grande cerimonia, presentata fastosamente a Roma, capitale dell’“impero”. Il 10 giugno di ottant’anni fa Mussolini aveva un messaggio ancora più solenne del solito. «La dichiarazione di guerra», disse alla folla – «è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia».
«La parola d’ordine è una sola» – grida ed urla nella calca – «categorica ed imperativa per tutti». Silenzio in piazza. «Essa accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere!». E giù il popolo che urlava, entusiasta, mentre siglava la sua condanna alla povertà e alla miseria. «E vinceremo!» Popolo in visibilio. Galvanizzato. Tutto sembrava andare a gonfie vele per l’Asse. Dunque, Roma salì su quello del vincitore del momento. Cinque anni dopo gli stipendi italiani erano ridotti del 26.7 per cento rispetto a quelli del 1913. Difficile fare la Storia con i “se” e con i “ma”; tuttavia, forse se Mussolini non fosse entrato in guerra sarebbe morto nel suo letto. Il dittatore spagnolo Francisco Franco, complice la sua conoscenza delle strutture militari e l’edonismo più contenuto rispetto a quello del Duce, fu più furbo di Mussolini e dichiarò neutralità (stesso discorso per il Portogallo di António Salazar).
Nell’ottobre 1940 fu la Wehrmacht a sanare la soluzione penosa in cui erano precipitate le forze italiane nei Balcani. L’esercito italiano non era assolutamente pronto al conflitto, anche perché i fondi destinati al corpo militare erano negli anni finiti in tangenti e mazzette di ogni tipo nelle alte sfere del regime. Un giro di corruzione enorme toccava anche l’industria degli armamenti. Da sommare poi il fatto che gli italiani non erano un popolo di guerrieri: ci volle l’orrore della Prima Guerra Mondiale per unificare l’esercito sotto al tricolore. Nella guerra del ‘15-‘18, settentrionali e meridionali s’incontrarono per la prima volta sul Carso. Ventisei anni dopo si sarebbero trovati ancora tutti assieme: ma non nel Nord-Est e non uniti. Bensì divisi tra fascisti e antifascisti; e sulla “coscienza nazionale”, migliaia di cittadini perseguitati sotto le leggi razziali. Altro che «vincere. E vinceremo!». In Italia, non vinse nessuno.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)