Il 10 maggio 1940 fu un giorno cruciale per la Storia europea, nonché per gli esiti della Seconda Guerra Mondiale. Mentre la Wehrmacht lanciava l’operazione per la conquista della Francia, Winston Churchill diventava Primo Ministro britannico, subentrando a Neville Chamberlain. Era la fine simbolica della politica dell’appeasement, dalla quale Londra si era distanziata da mesi e al contempo la “pausa” dell’espansionismo hitleriano, che aveva fatto filotto con le conquiste europee ad Est e a Nord. Fu l’insuccesso che Londra mostrò nel contrastare l’operazione Weserübung che portò al rimpiazzamento di Chamberlain – malato, stanco, poco popolare. E sfiduciato pure da trentatré Tories a Westminster. Churchill era da tempo tra i più feroci oppositori dell’appeasement. Già nel 1932 avvisava la classe dirigente britannica in merito alla fame di Lebensraum nazista. Additò Adolf Hitler come una minaccia quando questi divenne Cancelliere e si era sempre opposto alle dittature e ai totalitarismi.
Tuttavia, il 15 settembre 1937 all’Evening Standard disse che «una grande guerra non è imminente e credo che ci sia ancora la possibilità che nel nostro tempo una grande guerra non ci avrà luogo». Fu costretto a ricredersi qualche anno dopo. Eppure, la Gran Bretagna del tempo aveva considerato per mesi di unirsi alla Francia in chiave antitedesca. Sebbene Parigi fosse più desiderosa di imbracciare le armi verso il nemico ad Est, Londra era molto più cauta per diverse ragioni. Re Edoardo VIII, che regnò dal gennaio al dicembre 1936, aveva simpatie naziste. Secondariamente, il paese era indietro dal profilo militare e non si sentiva pronto per un confronto militare con Berlino. La RAF era più debole della Luftwaffe. In ultimo, il circolo conservatore ed affaristico della finanza londinese era preoccupato dal costo di un’eventuale guerra, nonché dall’incremento dell’inflazione. Meglio temporeggiare. E il “re” del temporeggiamento era proprio Chamberlain.
«Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra», disse Churchill a proposito degli accordi di Monaco del settembre 1938. Si diceva che Re Giorgio VI (succeduto al fratello) considerasse Churchill un uomo pericoloso, non adatto al ruolo di Primo Ministro, ma poi lo nominò ugualmente. Era la “darkest hour”. Saggiamente, il nuovo inquilino di Downing Street integrò nel suo gabinetto anche Chamberlain, Edward Wood, così come Clement Attlee e l’opposizione (i ministri del Labour Party erano tra i più fieri supporter di Churchill). D’altronde, durante la crisi il leader laburista riconobbe a più riprese il valore dell’avversario politico. «Non vedo nessuno idoneo eccetto Churchill», disse Attlee in quel maggio 1940. Da anni Sir Winston era preoccupato a proposito della decadenza dell’impero britannico e la simultanea ascesa di quello americano.
L’aveva già constatato in un viaggio in America alla fine degli anni Venti. Tuttavia, riconosceva i legami inter-atlantici come patrimonio comune tra Londra e Washington. Sin dai primi attimi della guerra, Churchill aveva chiesto aiuti militari e finanziari a Franklin Delano Roosevelt. Sapeva che la battaglia d’Inghilterra avrebbe assestato un grave colpo all’impero, ma ne accompagnò con dignità l’attenuamento geopolitico. Quello che iniziò nella primavera-estate 1940 fu l’ultima grande battaglia che la Gran Bretagna. «Il prezzo della grandezza è la responsabilità», avrebbe detto Churchill ad Harvard il 6 settembre 1943; tra lacrime e sangue. Il 10 maggio 1940 fu simultaneamente il giorno dell’attacco a Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, quindi alla Francia, il bottino più agognato da Hitler. La succulenta vendetta attesa dal giugno del 1919, quando nella Sala degli Specchi a Versailles veniva siglata l’umiliazione totale della Germania, era pronta per essere consumata.
La rivalità tra Francia e Germania è stato motivo di molte guerre nella Storia europea. Umiliati dalla sconfitta, i francesi avrebbero umiliato i tedeschi cinquant’anni dopo. E vent’anni dopo, i gerarchi nazisti avrebbero marciato sulla piazza del Trocadero, portando in scena un’umiliazione inconcepibile per chi aveva avuto, come generale e poi imperatore, Napoleone Bonaparte. La Francia moderna non era mai caduta in mano a potenze nemiche. Il paese era una struttura mastodontica a livello economico, diplomatico, commerciale e culturale. La Linea Maginot – che aveva costruito sperando che, in caso di una futura invasione tedesca, Berlino non massacrasse Paesi Bassi e Belgio per attaccare Parigi – non servì a nulla. La disfatta del maggio-giugno 1940 fu totale. Le colonie, dall’Africa ai Caraibi, guardarono stupefatte lo spegnersi della Ville Lumière. La Wehrmacht occupò il Nord industriale collegato al Belgio e favorì la creazione dello Stato di Vichy sotto Philippe Pétain e Pierre Laval.
«Un’atmosfera pesate, fosca, soffocante è calata sul paese», scrisse Simone Weil al fratello proprio in quel giugno 1940. «Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento generale, considerato sempre dagli osservatori superficiali come un indice delle fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario». Lo shock sarebbe arrivato. Gli Alleati riconquistarono Parigi nell’agosto 1944; al prezzo di oltre mezzo milione di morti. L’occupazione tedesca fu un’umiliazione immane per un popolo orgoglioso quello francese e un grave segnale per i britannici; al riparo dall’armata nazista solo grazie alla Manica. Con la fine della Battaglia di Dunkerque (4 giugno 1940), il Generale Charles De Gaulle fu costretto ad evacuare in Inghilterra. Il 18 giugno, il 125esimo anniversario della battaglia di Waterloo dove Napoleone fu sconfitto, Churchill riferì in Parlamento che la battaglia di Francia era finita. Ma quella della Gran Bretagna era appena cominciata.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Immoderati)