Saga Brexit e caos: dolcetto o scherzetto?

Non sappiamo ancora cosa rappresenterà nel lungo termine Brexit per il Regno Unito e l’Europa. Altro che “Downtown Abbey”: la saga Brexit (rinnovata almeno per il 31 gennaio prossimo) continua a catturare l’attenzione degli agenda-setter di tutto il mondo. Nel giorno di Halloween – quando Londra avrebbe dovuto staccarsi da Bruxelles – è importante chiedersi se l’esito dell’uscita dall’Unione sarà una dolce pillola o uno scherzetto di cattivo gusto. Legittimi sono i dubbi di chi sostiene che Brexit sarà un disastro; non tanto per il continente europeo, quanto per il Regno Unito stesso. Questo, da sempre un membro riluttante dell’UE, nonostante Winston Churchill suggerì lo sviluppo del Vecchio Continente in un progetto cmune tra Francia e Germania. Gli attriti con l’Unione – specialmente con la Francia di Charles De Gaulle che impedì a Londra per due volte di entrare nella Comunità Economica Europea (CEE) – sono stati una costante del Regno Unito.

Sorprendente, quindi, che la difesa dell’appartenenza di Londra all’Europa sia stata presa da figure come Margaret Thatcher, fiera avversaria di Bruxelles. La Iron Lady disse in un convegno a principio degli anni Duemila: «Noi britannici siamo eredi della cultura europea tanto quanto lo sono tutte le altre nazioni. I nostri legami con il resto d’Europa, il continente Europa, sono stati un fattore dominante nella nostra Storia. Per trecento anni siamo stati parte dell’Impero Romano e le nostre mappe riportano le linee dritte delle strade che i romani costruirono». Il Regno Unito «non sogna una qualche pigra e isolata esistenza ai margini della Comunità Europea. Il nostro destino è in Europa, quale parte della Comunità. Ciò non vuol dire che il nostro futuro appartenga solo all’Europa». Sebbene si debba distinguere tra Europa e Unione Europea, il referendum del 26 giugno 2016 ha messo in forte crisi il Regno di Sua Maestà.

Che per oltre tre anni si è arrovellata su come uscire – in maniera soft o hard – dall’Unione, perdendo tre anni cruciali per l’economia occidentale e non solo. I motivi? Gran parte domestici. Nel 2016 Scozia e Irlanda votarono per restare nell’Unione. Il Galles e l’Inghilterra invece no. Londra votò per il “Remain” al sessanta per cento; il suo ex sindaco Boris Johnson non era tra quelli. Gli intellettuali di mezzo mondo si scatenarono sulle pagine dei giornali. Memorabile un intervento di Bernard-Henri Lévy all’indomani del referendum indetto da David Cameron, in cui definiva gli artefici della Brexit dei “cretini” e “ignoranti”. BHL indentificò gli sponsor internazionali dell’operazione di rottura tra UK e UE: Donald Trump, Marine Le Pen e Vladimir Putin – dei “nuovi reazionari”, degli “incompetenti”, dei “sovranisti ammuffiti”.

Dimessasi Theresa May, a Downing Street è arrivato il controverso Boris. Che, sconfitto in quasi tutte le recenti votazioni a Westminster, ha ottenuto qualche giorno fa l’agognato via libera per le elezioni politiche in dicembre. Chiunque risulterà vincitore delle consultazioni elettorali tra BoJo e Jeremy Corbyn, altro non potrà fare che dialogare con Bruxelles. Gli interrogativi più importanti sull’uscita di Londra sono i rapporti con l’UE in termini di libera circolazione delle merci e delle persone (fronte esterno). Dal punto di vista interno la più scottante emergenza riguarda invece l’aspetto doganale. Gli accordi tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica del Sud del 1997 potrebbero essere messi in discussione. Inizio delle dogane vuol dire che tutto ciò che entra ed esce dal Regno Unito dovrà essere sottoposto al controllo delle frontiere. Le merci sì potranno circolare liberamente, ma i ritardi causati dalle ispezioni porteranno l’orologio commerciale indietro di decenni.

Dal fronte europeo, si temeva il contagio Brexit, ma dopo tre anni e tre proroghe per l’uscita dall’Unione di Londra, anche i più accaniti nemici di Bruxelles si sono acquietati. L’onda demagogico-populista sembra si sia già arrestata nelle elezioni del tardo maggio scorso. L’uscita massiva dalla UE di molti dei suoi Stati non è avvenuta: altro che “Italexit”, “Frexit” o “Grexit”. Per opportunismo politico, nessuno va ora più in giro con magliette o felpe “Basta Euro”. Forse costoro hanno capito, dopo anni, che l’uscita dall’Eurozona sarebbe nociva per il suo elettorato. Problema disinnescato per ora. Tuttavia, l’incapacità della metropoli sul Tamigi di uscire sbattendo la porta per rivolgersi verso l’Atlantico si è rivelata un’impresa molto più ardua del previsto. L’Unione Europea – dipinta come austera, cattiva, matrigna, pasticciona, burocratica – tiene.

E le risposte, lente, che ha dato in termini, per esempio, di immigrazione hanno aiutato a spegnere per il momento l’argomento demagogico par excellence dei partiti populisti. Nessun partito populista sostiene oggi seriamente un’uscita dall’Europa. Nonostante abbia scritto un libro su Churchill, Boris Johnson non è uno statista. Rimangono ancora aperti gli interrogativi sugli esiti di Brexit – saga infinita – e i risultati delle elezioni. Che, inevitabilmente, si trasformeranno in una sorta di referendum non solo sull’inquilino del numero 10 di Downing Street, ma anche sulla durezza o meno dell’uscita del Regno Unito dall’UE. Oggi è il 31 ottobre, la festa di Halloween. L’uscita di Londra dall’Unione, la Brexit, sarà un dolcetto o uno scherzetto? Probabilmente un insieme dei due: una pillola, un confetto di zucchero, ma amaro per tutto l’Occidente.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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