Se n’è andato come ha sempre vissuto: in silenzio, quasi nell’ombra. Gian Galeazzo Biazzi Vergani è morto oggi all’età di novantatré anni a Milano: era ultimo dei sette grandi fondatori de il Giornale di Indro Montanelli ancora in vita. Signorile decano del giornalismo italiano, era depositario dei segreti e delle storie del Giornale. La stragrande maggioranza dei suoi lettori non lo conosceva, ma è grazie a lui se il quotidiano di Via Negri usciva tutti i giorni dopo un intenso “lavoro di cucina”. Gian Galeazzo Biazzi Vergani era nato a Cremona nel 1925. Dopo gli studi in Lettere all’Università di Pavia – e due anni d’insegnamento, vecchia passione dai tempi del liceo – si era dedicato sin da giovane al giornalismo. Cominciò quindi a La Provincia di Cremona, dove si occupò di arte e teatro. In seguito, approdò al Corriere della Sera di Mario Missiroli nel 1955.
Caposervizio interni sotto Alfio Russo, vicecaporedattore con Giovanni Spadolini, caporedattore (numero tre del giornale) con Piero Ottone. In Via Solferino restò diciannove anni, quando nel 1973 assieme a Montanelli ed altri corrieristi – tra cui Enzo Bettiza, Egisto Corradi e Leopoldo Sofisti – decise di fondare un nuovo quotidiano della borghesia. In un’intervista del 2002 raccontò: «Lasciammo il Corriere perché non ci sentivamo più a nostro agio. Cercammo di ricreare al Giornale le condizioni e lo stile del vecchio Corriere. Non fu una decisione sofferta: ci proiettammo subito nella nuova iniziativa, che è stata poi la grande passione della mia vita professionale. C’era una creatura ancora gracile da far vivere e crescere e dovevamo assicurare il posto di lavoro ad alcune centinaia di famiglie che avevamo trascinato nella nostra avventura».
Biazzi Vergani fu il primo a dimettersi dal Corriere e fu l’addetto al reclutamento di collaboratori e giornalisti per fondare una nuova creatura cartacea. Costituita la Società Europea di Edizioni (il 27 febbraio 1974), il 25 giugno uscì il primo numero del Giornale Nuovo, di cui Biazzi Vergani era vicedirettore. Nel suo diario, il giorno stesso, scrisse: «L’entusiasmo dura lo spazio di un mattino […]. Già nel pomeriggio ecco i primi segnali dell’ostilità dei tipografi: assemblee, rivendicazioni, contestazioni, tagli di tirature. Le nostre proteste sono inutili. Il consiglio di fabbrica, a maggioranza CGIL e Lotta continua e le centrali sindacali non ci amano. Anzi, per essere poi esatti, preferirebbero vederci morti. Siamo demoralizzati». Il Giornale è stato boicottato sin da subito in diverse edicole italiane: alcuni edicolanti addirittura lo nascondevano.
«Il Giornale non è una passione, è quasi una malattia». Al quotidiano che in origine stava in Piazza Cavour Biazzi ha passato la sua seconda vita giornalistica. La prima, appunto, era al Corriere: un destino analogo a quello del suo amico Mario Cervi. Difficili invece i rapporti con Bettiza: i due erano completamente diversi. Uno scriveva, l’altro no; uno girava il mondo, l’altro stava a Milano. Era naturale che ci fossero attriti, fino alla dipartita del Barone nel 1983 dal Giornale. Condirettore da allora fino al 1991, Biazzi Vergani divenne allora presidente della SEE. Gli anni Ottanta se li è fatti tutti accanto al Grande di Fucecchio, con cui ha condiviso tanti decenni della Storia d’Italia. Con la controversa rottura tra il fondatore del Giornale e l’“ex” editore Silvio Berlusconi tra il 1993 e il 1994, Biazzi rimase in Via Negri.
Nella vita, il macchinista ha scritto poco, tra cui recentemente i necrologi di Cervi (di cui aveva rilevato per pochissimo tempo la “Stanza” di dialogo con i lettori) e Paolo Granzotto. Negli anni Sessanta aveva discusso per iscritto con Egidio Sterpa nel libro Battibecco tra due Italie. Uno garbato scambio epistolario tra Nord e Sud: tra un signore del Settentrione e nobile del Meridione. Il secondo e ultimo libro è il volume curato con Cervi: I vent’anni del “Giornale” di Montanelli (Rizzoli). Biazzi Vergani è stato la grande eminenza grigia del Giornale montanelliano. Sempre dietro alle quinte, a curare i rapporti col potere politico e coordinare come un direttore d’orchestra redattori e firme illustri, in un grande concerto che si concludeva a mezzanotte. Poi la stampa e la distribuzione. E la mattina dopo il Giornale era a sporcare le dita delle mani dell’unico vero padrone di un giornalista: il lettore.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)