Troppe volte i genitori si trasformano nei coach dei figli: genitori-allenatori a tutti gli effetti. Ecco, quindi, il papà ansioso e ultra-competitivo. «La prossima volta asfaltalo» o «Non fare più quel passaggio» o «Tira da angolatura di settantaquattro gradi». Inutile negarlo: lo sport gasa. Gasa tutti: il particolare i genitori-allenatori, più dei loro rampolli-campioni. Lo gonfia i petti e le vene del collo; il sudore scende dalle tempie, i capelli si fanno umidi, le corde vocali chiedono pietà. È questo lo stato del genitore tifoso: più di un allenatore che esige il meglio dai suoi pulcini. Sul campo da giuoco papà e mamma pretendono la perfezione da parte della prole. Questa, vista come una continuatrice dei tempi gloriosi che furono, quando anche i genitori gareggiavano e atleticamente saltavano ostacoli, impugnavano racchette o danzavano sul ghiaccio. «Vai Christian, spaccagli la faccia», tuona la mammina da bordocampo.
Al momento della discesa in campo del pargolo il genitore si trasforma: mai ci si aspetterebbe che una signora sulla quarantina urli a squarciagola e inciti il rampollo a battere ad ogni costo l’avversario (per altro un coetaneo neppure adolescente). A sommarsi alla tifoseria genitoriale, c’è anche l’indigestione di sport propugnata al figlio. Scattata la campanella della scuola, lo scolaro viene sottoposto ad un imponente tour de force di attività esterne. Tutti i giorni il pargolo deve avere almeno uno svago pomeridiano. E, si noti, sempre diverso. Dal calcio al corso d’arpa, dalle lezioni di arabo al nuoto, dal tennis all’equitazione sul prezioso puledro, dal violino al polo. Lo sport domina l’agenda del bambino delle elementari («deve provare tutto», si dice). Già, tutto quanto: e chi non vorrebbe un figlio-campione?
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’universo)