Ero contento di incontrare Livio Caputo nell’aprile del 2017. Poco dopo il giornalista avrebbe interrotto il filo diretto con i lettori de il Giornale che curava tramite la rubrica “Dalla vostra parte”, ereditata da Mario Cervi. All’età di ottantasette anni, si è spento ieri l’ultimo dei grandi del giornale di Via Negri. Direttore ad interim del quotidiano dal 17 maggio scorso dopo le dimissioni di Alessandro Sallusti, Caputo è mancato proprio nel giorno in cui il Comitato di Redazione ha annunciato l’arrivo di Augusto Minzolini al Giornale. Il 18 maggio firmò il suo primo editoriale al vertice del quotidiano milanese. «Quale ultimo dei mohicani, come qualcuno mi chiama, sono felice di rendere questo servizio al nostro Giornale, con cui mi sono identificato fin dalla sua nascita e a cui ho dedicato tanta parte della mia vita professionale». Sebbene si occupasse di esteri, Caputo conosceva dinamiche e sfumature della politica italiana.
“Livio l’austriaco” si sentiva mitteleuropeo. Era nato nel 1933 a Vienna. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino, venne assunto da giovanissimo al Corriere d’Informazione. Liberal-conservatore e anticomunista convinto, Caputo fu corrispondente da Bonn per il settimanale Gente. Da Londra scrisse per La Nazione e Il Resto del Carlino; a New York – dove lavorò ha come capo dell’ufficio presso Mondadori – conobbe Oriana Fallaci. «Vedo che ha qui il libro di Magdi Cristiano Allam [Io e Oriana]», gli dissi. «Sì, ma lui la Fallaci non la conosceva così bene come dice», mi spiegò. Caputo ha viaggiato il mondo. Gli anni Settanta furono quelli delle grandi interviste del giornalista lombardo – Lyndon B. Johnson, Willy Brandt, Georges Pompidou e Yitzhak Rabin. Nei primi Anni di Piombo, tornò in Italia e si mise a disposizione di Indro Montanelli che nel frattempo aveva lasciato il Corriere della Sera per dare vita al Giornale Nuovo.
Era il 1974. «Indro era un amico», mi disse Caputo. «Con il Vecchio era impossibile non litigare di tanto in tanto». Direttore di Epoca dal 1970 al 1976, nel 1979 subentrò al maestro di tanti giornalisti, Nino Nutrizio, che lasciò alle sue cure La Notte. Nel 1984 Caputo passò al Corriere, dove ricoprì la carica di capo dei servizi esteri. Vinse il Premio Hemingway per la gestione dei servizi sulla Guerra del Golfo. A metà 1992 tornò nella casa montanelliana, in crisi di identità tra un direttore anziano e un editore che aveva annusato il cambio di musica nella politica italiana. Durante la nostra intervista, riuscii a collegare i racconti di Caputo con quelli di Ferruccio de Bortoli, intervistato nell’autunno 2015. Negli anni pre-Mani Pulite, mi disse de Bortoli, «pubblicammo la notizia di un giovane leghista che era stato fermato dai Carabinieri per affissione abusiva di manifesti». Era Umberto Bossi.
«Ci ricordammo di quell’episodio perché il carabiniere che lo fermò era figlio di un nostro collega, quindi per noi la notizia era che il carabiniere figlio del nostro collega aveva fermato un attivista leghista, non il fatto che fosse stato fermato Umberto Bossi». Il papà di quel carabiniere era Livio Caputo. Che durante la tempesta di Tangentopoli divenne vicedirettore del Giornale. Nel 1994, ricevette una chiamata da Silvio Berlusconi che gli propose di “scendere in campo” con lui: aderì con entusiasmo a Forza Italia. Eletto al Senato nel 1994 nel collegio di Bergamo, collaborò con il ministro degli Esteri Antonio Martino. Off the records, mi disse che appena poteva il liberale messinese saltava i vertici europei. E mandava Caputo a trattare. Il giornalista ebbe un ruolo importante nella questione delle quote latte. Dal 1997 al 2007 fu consigliere comunale a Milano.
L’italo-austriaco abitava al quattordicesimo piano di un bel palazzo di Via Revere a Milano. «Sapeva in primo luogo guidare e ispirare chi aveva la fortuna di poter lavorare con lui», ha ricordato Luigi Ippolito sul Corriere della Sera di oggi. Uscito dall’ascensore che mi condusse alla porta del suo appartamento, Livio Caputo mi aspettava con l’orologio in mano. «Sono le undici in punto adesso. Complimenti per la puntualità». Conversammo di attualità seduti ad una grande tavola coperta da un telo verde simile a quello del biliardo. Della Grande Mela aveva ancora i ricordi: notai le copie cartacee del New York Times che si faceva spedire dagli Stati Uniti. Caputo era un giornalista raffinato: capiva la materia estera, aveva viaggiato il mondo. Negli ultimi anni era annoiato della politica italiana. Non era il solo: ha fatto bene ad occuparsi di esteri tutta la vita.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)