Il Fascismo socialista: Stato ed economia secondo Mussolini

«Combattenti di terra, di mare, dell’aria. Camice nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’impero e del Regno di Albania, ascoltate! L’Italia proletaria e fascista è per la terza volta in piedi forte, fiera e compatta come non mai». Questo estratto della dichiarazione di guerra di Benito Mussolini (10 giugno 1940) è forse la più rilevante ed esplicita testimonianza della vera caratura del Fascismo. Una dittatura che ha governato l’Italia “proletaria” e “fascista” – in quest’ordine – per oltre vent’anni. Non è difficile intravedere elementi di Socialismo nel movimento e nella mentalità fascista. Innanzitutto, in ottica ducesca la società italiana doveva essere comunitaria. Tutti dovevano condividere i valori che Mussolini intendeva impartire alla popolazione: un Fascismo socialista basato sullo statalismo sistemico in ogni campo del vivere civile, dalla scuola alla fabbrica. Dunque, una visione Stato-centrica in campo economico. Il regime mussoliniano avesse un’intensa caratura di stampo socialista.

Banalmente, il Duce era stato un fervente socialista e figlio di povera gente, come amava ricordare lui. Tra il 1912 e il 1914 Mussolini era stato praticamente l’unica guida del Partito Socialista, a favore di posizioni antibelliche, per poi incitare un intervento italiano nella Grande Guerra purificatrice, su orme nazionalisticamente dannunziane. In ottica mussoliniana, la vittoria dell’Italia nel conflitto avrebbe portato alla fine degli imperi centrali. Dunque, alla nascita di una vera e propria rivoluzione socialista in Italia. Arrivato al potere nel 1922, Mussolini sostituì il concetto di proletariato con quello di nazione. «Proletari di tutto il mondo unitevi» dunque, ma sotto la “nuova” e virilissima italica nazione. Sebbene il Duce non fosse per la messa in comune dei mezzi di produzione, il suo Fascismo denotava un’impressionante congruenza con il Socialismo. In effetti, il secondo aveva generato il primo; dunque, il primo non poteva che assomigliare al genitore.

A parte la nozione che il potere politico si deve ottenere tramite l’uso della violenza, l’idea comune di fondo delle due ideologie era quella di distruggere la borghesia liberale a favore di un sistema accentratore, dirigista, autoritario. Antidemocratico, anti-mercato e antimeritocratico, al di là della caratteristica criminale che il Fascismo socialista assunse, era Mussolini stesso che reputava necessario accentrare ogni attività, compresa quella economica, sotto l’autorità statale. La conduzione in salsa socialista dell’economia accomuna quasi tutti i sistemi totalitari. La totale gestione da parte dello Stato del sistema di libero scambio di merce tra gli individui non è d’altra parte tollerato nei regimi dittatoriali. La statalizzazione è trasversale alle ideologie, oltre destra e sinistra.

Non a caso gli storici parlano di terza via corporativa (o fascista) che, come scrive Emilio Gentile (Il Fascismo in tre capitoli) s’inserisce «fra capitalismo e Comunismo, nella prospettiva della realizzazione di un ordine nuovo e di una nuova civiltà fondata sulla militarizzazione e sulla sacralizzazione della politica, sulla organizzazione e la mobilitazione delle masse integrate». A Gentile fa eco Francesco Filippi (Mussolini ha fatto anche cose buone) che spiega che «la terza via tutta italiana tra capitalismo e Socialismo […] cercava di dirigere l’economia secondo gli interessi del Fascismo al potere». Nel 1932 il Duce – da sempre avversario del liberalismo – disse che lo Stato doveva abbracciare tutto. E nulla doveva esistere al di fuori di esso. In ottica mussoliniana, lo Stato forgiava la nazione e gli italiani. Fabbricava l’homo fascista benché, almeno inizialmente, l’ex direttore dell’Avanti! (quotidiano socialista) non fosse razzista.

Una delle prove di quanto il Fascismo fosse connesso al Socialismo è vedere come Mussolini stesso disprezzasse i bolscevichi e ammirasse il Leninismo. Da Lenin il Duce aveva preso la centralizzazione dell’economia e l’abilità di stregare le masse con la retorica statalista. Come Lenin, anche Mussolini aveva promesso un avvenire migliore ad una massa prevalentemente composta da contadini. L’instaurazione di un sistema dittatoriale era de facto il mezzo per coinvolgere tutti in un nuovo progetto identitario. Per dirla con il Duce, «per il fascista tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tantomeno ha valore, fuori dallo Stato». Il risultato di questo accentramento non poteva che essere negativo. Il Fascismo – come ha scritto Don Luigi Sturzo (Miscellanea Londinese 1925-30) – «tende alla deificazione della nazione-Stato, e alla confusione dello Stato col governo e del governo con il partito e del partito con la persona».

Il Fascismo non poteva essere considerato conservatore o popolare. Esso era modernista, progressista, collettivista, futuristico, antiliberale, antidemocratico, intollerante, radicale, ateo, violento. Proprio come il Socialismo. Il Fascismo non poteva vedere di buon occhio uno Stato limitato in economia e il concetto di libertà economica. «Pur condannando la società borghese perché materialistica e individualistica», continua Gentile, «i fascisti si schieravano a difesa della proprietà privata, esaltavano il ruolo dirigente della borghesia produttiva, sostenevano la […] la necessità della collaborazione di classe […] al fine di intensificare la produzione». Come nota Ayn Rand (Capitalism: The Unknown Ideal) il regime fascista era talmente subdolo che non possedeva le imprese. Tuttavia, dava loro solo la parvenza e l’illusione di essere indipendenti. Una delle differenze tra Comunismo e Socialismo è l’attitudine più aperta che il secondo ha nei confronti dell’impresa privata.

«L’unica variante di Socialismo che può distribuire “favori” senza la proprietà governativa, è il Fascismo», ha scritto la filosofa. Durante l’epoca fascista, importanti furono anche gli aiutini di Stato che vennero dati alle imprese. Il mastodonte che nel 1933 prese il nome di IRI era «un ampiamento di un sistema di supporto pubblico alle imprese pensato nel 1913 e attivato nel 1915 con il Consorzio per Sovvenzioni su Valori Industriali», scrive Filippi. Smantellata nel 2002, l’IRI era il fiore all’occhiello del regime. Governata da Alberto Beneduce, era il massimo esempio del corporativismo (che si pronuncia “anti-mercatismo”) e dell’arrogante intervento statalista nell’economia. Uno strumento usato dal regime per controllare i gruppi industriali fintamente indipendenti e proni ad allungare la tangente al governo. Arrivato al potere, consolidato il sistema dittatoriale in politica e dirigista in economia, Mussolini decise di rendere l’IRI permanente.

Lo scopo, scrive Filippi, «non era più salvare le aziende in difficoltà, ma portare avanti la politica del regime in ambito economico». Come disse Friedrich von Hayek, se i socialisti capissero l’economia, non sarebbero socialisti: difatti, di economia Mussolini capiva molto poco. Assieme a qualche tirapiedi, s’inventò una terza via pasticciata, burocratica, parassitaria, inefficiente, centralizzata. In ultimo, occorre dire che tale struttura dell’economia non avrebbe mai potuto affermarsi se in Italia ci fosse stato più affezione per il libero mercato. La cultura centralista dell’economia nelle mani dello Stato fascista su modello socialista trova le sue radici nella semi-totale assenza della cultura liberale nella popolazione italiana, nonché nell’aderenza vigliacca di una certa borghesia a chiunque promettesse quattro spiccioli e un po’ di sicurezza dai “nemici esteri”. La stessa borghesia che voleva evitare l’avvento del Comunismo visti gli esiti in Russia e che decise di affidarsi al suo genitore, il Fascismo socialista.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su Immoderati)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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