Lunedì 7 maggio 1945: per conto del nuovo governo nazista dell’ammiraglio Karl Dönitz, il capo di Stato maggiore Alfred Jodl si arrese incondizionatamente alle potenze alleate a Rheims. Allora, un settimo delle forze armate del Terzo Reich non era tedesco. Il grande impero nazista che doveva durare millenni, naufragò a causa della propria ingordigia territoriale dopo dodici anni. Alla fine della guerra, agli Alleati Jodl chiese clemenza e generosità. Parlò a nome del popolo tedesco: un popolo che per generazioni avrebbe recitato il mea culpa per i crimi commessi. Lo stesso che aveva trascinato il pianeta nel più grande conflitto della Storia e aveva industrializzato l’omicidio di milioni di innocenti. Alla resa del 7 maggio non era presente alcun rappresentante sovietico e quindi la cerimonia venne ripetuta il giorno seguente a Berlino. Doppia firma, doppia umiliazione: nella capitale tedesca, a firmare questa volta c’era l’Oberkommando della Wehrmacht, Wilhelm Keitel.
Alle 16 di martedì 15 maggio croati, sloveni e montenegrini si arresero ai partigiani a Poljana (nell’odierna Slovenia). Le bombe atomiche vennero sganciate nell’agosto 1945 sull’impero giapponese per risparmiare agli Alleati e al mondo una guerra di logoramento, mostrare i muscoli a Stalin, giustificare le spese per il progetto nucleare caldeggiato da molti scienziati. Il 2 settembre di settantacinque anni fa, tutto era finito. Era la fine della guerra. Dopo il conflitto, i cambiamenti strutturali delle nazioni e dei continenti furono rilevanti. I vincitori avevano pagato un duro prezzo in termini di vite umane, ma presto si sarebbero preparati ad un’egemonia politica che sarebbe durata per mezzo secolo. Nonostante entrarono in guerra per la seconda volta in due decenni con riluttanza, gli Stati Uniti si confermarono una potenza imbattibile e addomesticarono il Giappone.
L’arma risultante dal progetto Manhattan era un unicum che al tempo poteva vantare solo Washington, diventata la prima superpotenza del globo. Nessuno poteva battere gli Stati Uniti, che piantarono i propri soldati nei territori su cui avrebbero esercitato influenza secondo le logiche di Yalta. La Francia doveva ancora riprendersi dalla lacerazione tra collaborazionisti di Philippe Pétain e la Resistenza di Charles De Gaulle, nonché dalla tremenda umiliazione di essere invasa dal grande nemico tedesco. L’Italia, che anche allora dimostrò di essere un paese da operetta passando dalla sera alla mattina dal Fascismo all’Antifascismo, si guadagnò i tavoli delle trattative per la paura degli Alleati che la penisola potesse scivolare nelle braccia di Tito Broz. La Gran Bretagna, unico paese occidentale che resistette al Reich, non voleva entrare in un progetto europeo e si rese conto che avrebbe dovuto cedere il suo immenso bottino coloniale ai moti indipendentisti.
La Germania venne spaccata in quattro zone di influenza. L’errore di umiliare il popolo tedesco alla fine della guerra non venne compiuto dai vincitori come invece era stato fatto a Versailles nel 1919. La Germania dell’Ovest si preparava ad un percorso pedagogico che l’avrebbe portata in quindici anni, a diventare ancora la prima potenza d’Europa. La parte Est fu condannata ad una dittatura filosovietica. Piano piano il popolo tedesco rialzò la testa dagli errori che, come collettività, aveva commesso. L’odierna riluttanza nel maneggiare le redini del Vecchio Continente deriva proprio da quel senso di disagio per le atrocità della Shoah. Infine, l’URSS: la Russia bolscevica era uscita dalla Prima Guerra Mondiale a pezzi; e aveva perso. A seguito della Seconda Guerra Mondiale era uscita comunque a pezzi, ma tutto sommato aveva vinto.
Stalin aveva mandato milioni di contadini in pasto al nemico nazista e al Generale Inverno solo per conquistarsi la poltroncina a Teheran, Yalta e Potsdam. D’altra parte, il dittatore non aveva rinunciato all’idea di esportare la rivoluzione nel mondo. Lo sforzo di estendere il più possibile ad Ovest l’Armata Rossa fu determinante al momento della spartizione del mondo con gli altri vincitori. Incurante delle perdite umane, Stalin aveva capito che il Comunismo sovietico era l’alternativa alla liberaldemocrazia capitalista. E dopo aver fatto dimenticare al mondo i gulag e il Patto Molotov-von Ribbentrop, il dittatore bolscevico veniva visto come un nobile signore della geopolitica. Premiato con una cortina di ferro che lacerò l’Europa e gli consentì di tenere sotto controllo i paesi legati in seguito dal Patto di Varsavia. Alla fine della guerra l’Europa aveva un PIL pro capite al quarantadue per cento rispetto a quello degli Stati Uniti.
L’Europa occidentale era salva, ma la sua (auto)distruzione aveva creato i presupposti affinché diventasse una colonia di una sua ex colonia. Non fu solo il Piano Marshall che determinò il controllo americano sull’Europa occidentale. I legami atlantici si intensificarono proprio in risposta alle minacce sovietiche. La crisi di Berlino nel 1948 fu un antipasto dei numerosi e logoranti conflitti tra Est ed Ovest che si presentarono durante la Guerra Fredda. Con la fine del conflitto nacquero (e rinacquero) nuovi stati: è il caso delle repubbliche del Nord ed Est Europa, che tuttavia, questa volta, non godettero di libertà e indipendenza che conquistarono nel 1918. I baltici, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia erano oltre cortina. Condannate, quindi, alla miseria e allo stupro culturale, sociale e psicologico di una prepotente Unione Sovietica. L’URSS intervenne pesantemente nella vita democratica dei paesi che si era de facto annessa.
Nessun partito comunista dei paesi sotto il dominio sovietico raggiunse il potere senza l’aiuto di Mosca. Nessun partito comunista conquistò i parlamenti senza brogli, ricatti, intimidazioni e truffe elettorali. La nascita dell’ONU (1945), di Israele (1948), della NATO e della Repubblica Popolare Cinese (1949) sono conseguenze del secondo conflitto mondiale. Inverosimile che queste si sarebbero materializzate senza la guerra. L’istituzionalismo liberale di Woodrow Wilson fu applicato su larga scala. Bretton Woods, d’altra parte, aveva ospitato gli omonimi accordi nel 1944 e ridisegnò la politica economica degli stati del mondo libero secondo le dottrine di John Maynard Keynes. La nascita delle organizzazioni internazionali ricordava l’ottimismo post-Grande Guerra. Le INGO avevano dunque il compito non solo di fare da stakeholders, ma simultaneamente buttare un occhio su stati e mercato, garantendone l’armonia.
La fine della guerra portò alla creazione della CECA, il primo informale embrione di Unione Europea. Un’entità sulla quale tutti concordano circa la capacità di assicurare il libero commercio e la libera circolazione di merci, persone, idee e lavoro tra stati che si sono massacrati per secoli. Se l’elemento religioso nella vita politica scemò pian piano tra il XIX e il XX secolo, fu quello ideologico che prevalse. La fine del secondo conflitto mondiale non dichiarò la fine dei totalitarismi. Le dittature iberiche di destra avrebbero regnato per altri trent’anni con il consenso strategico dell’asse atlantico. Le dittature di sinistra conquistarono il potere politico fino all’orlo di una crisi nucleare. Dopo che la tragedia dell’Olocausto si era consumata, nell’Occidente liberaldemocratico si sviluppò poi una forte e viva attenzione per i diritti umani. Cosa che guidò con successo la politica degli stati del primo mondo, nei decenni a venire.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)