Speriamo possa ispirare qualcuno in Italia, dove la cultura liberalconservatrice è praticamente assente, la nuova biografia di Margaret Thatcher, Margaret Thatcher. La biografia della donna e della politica (Mondadori 2019), firmata da Elisabetta Rosaspina. Che, nello stile delicato e documentato si conferma giornalista di pasta montanelliana. Nel corso dell’opera, la giornalista del Corriere della Sera intraprende un viaggio di duecentocinquanta pagine nell’universo britannico del secolo scorso. E lo fa partendo dagli occhi di una donna, la Lady di Ferro del mondo occidentale, che ha cambiato la Storia europea, nonché il suo paese e partito. L’intento di Rosaspina è quello di offrire un ritratto di Thatcher che vada oltre la sua mirabile carriera politica. La leader dei Tory è stata la prima donna del mondo occidentale a ricoprire la carica di Primo Ministro. La prima a giustificare le sue mosse politiche con la fortunata sigla “TINA”, “There is no alternative”.
Controversa, odiata e amata allo stesso modo sin dall’inizio della sua carriera politica, “TBW” – “That Bloody Woman” – non era arrivata a Downing Street tramite quote rose o atti compassionevoli. Fiera lottatrice, determinata, ambiziosa, Thatcher non godeva del supporto dei movimenti femministi. La Signora leggeva molto, amava strafare, essere protagonista, non le importava di essere impopolare. Adorava imporsi e condurre battaglie di principio. Era competitiva, solitaria, decisionista e a tratti anche autoritaria. La figlia del droghiere era un personaggio complesso, ma Rosaspina racconta anche la donna oltre la feroce maschera della politica. L’autrice ripercorre la biografia di Thatcher: circa due terzi del libro sono dedicati alla sua scalata al potere. L’ultima parte verte sulla politica estera, che subì picchi nel primo mandato governativo con la battaglia delle Falkland e nel terzo mandato con la fine della Guerra Fredda, il crollo dell’URSS e la costituzionalizzazione di Maastricht.
Alla seconda gravidanza della moglie, Beatrice Stephenson, Alfred Roberts – piccolo commerciante metodista, scampato alla Grande Guerra per via della miopia – sperava in un maschietto. Ma il 13 ottobre 1925 a Grantham (paesino poi molto danneggiato dai bombardamenti tedeschi) era nata un’altra femmina. Con Margaret il padre aveva un rapporto speciale. A lui doveva moltissimo, tra cui l’amore per la politica che investì la giovane Roberts sin dalle riunioni rotariane degli anni Trenta. Amante di Rudyard Kipling, il padre «le insegnava il coraggio delle propri opinioni conservatrici», scrive Rosaspina. In gioventù, così come per il resto della vita, poche furono le amiche di Maggie (a scuola era nota come “snobby Roberts”, viste le attitudini da secchiona). Decisivo il conflitto mondiale in cui la Gran Bretagna entrò alle 11:15 del 3 settembre 1939, «l’unica domenica della sua infanzia in cui fu autorizzata a disertare la messa».
Diciottenne squattrinata, nel 1943 Margaret studiò chimica ad Oxford senza borsa di studio e risultati eccelsi; il padre auspicava per lei un futuro da insegnante. Formativi nella sua adolescenza furono The Wealth of Nations di Adam Smith e The Road to Serfdom di Friedrich von Hayek, del quale adotterà una volta al governo diverse politiche economiche, sventolando in faccia ai colleghi di gabinetto e all’opposizione l’altro grande successo dell’economista austriaco, The Constitution of Liberty. Quattro anni dopo entrò alla BX Plastics nell’Essex come ricercatrice, ma la sua passione era la politica. Di lì a poco Margaret conobbe Denis Thatcher, l’amore di una vita: “amico”, come lo chiamò in diversi interventi. «Denis era un uomo fuori dal comune. Sapeva di politica quasi quanto me, e di economia molto di più», avrebbe detto. A trentasette anni il signor Thatcher voleva diventare padre. «Desiderava tanto prima un maschio e poi una femmina».
Solo che due gravidanze erano davvero troppo per la giovane Lady, che comunque – già all’epoca recordwoman, con sei settimane d’anticipo – «raggiunse lo stesso risultato con un parto gemellare, il 15 agosto 1953». Allevare i figli non pregiudicò il conseguimento di una seconda laurea. Tuttavia, anni dopo, la Signora di ferro avrebbe riconosciuto di aver messo in disparte i figli per perseguire la carriera politica. In seguito, si presentò al collegio di Finchley, «una roccaforte dei conservatori una dozzina di chilometri a Nord di Londra, […] indebolita dalla reputazione antisemita di alcuni di loro, implicati nell’esclusione di soci ebrei dal club di golf locale». Margaret – ora “la” Thatcher – vinse con distacco un seggio alla Camera dei Comuni. Per la neo-Onorevole era il sogno di una vita: a trentatré anni «era una delle venticinque deputate, tra cui dodici conservatrici, che entravano a Westminster».
Contrariamente a molti parrucconi tra laburisti e conservatori dell’epoca, sin dal 1966 Thatcher «era a favore della depenalizzazione dell’omosessualità […] e per l’autorizzazione dall’aborto, se il feto fosse stato a rischio di sviluppare malformazioni o problemi mentali […]. Sul divorzio era possibilista, ma prudente». Il tutto al netto della rigorosa educazione metodista. Insomma, Thatcher era molto più progressista di tanti progressisti. Junior Minister all’Istruzione dal 1970 al 1974 nel governo di Edward Heath, che conosceva sin dai tempi di Oxford («dieci anni dopo sarebbe diventato in nemico dichiarato»), Thatcher si costruì la fama di “ladra di latte” (“milk snatcher”), visti i tagli dell’emissione gratuita della bevanda dalle scuole pubbliche. In quell’occasione, Heath non difese la ministra, «la donna più odiata del regno», secondo The Sun, che guardava divertito le manifestazioni anti-thatcheriane dei primi anni Settanta, leggerissimo antipasto di quello che sarebbe arrivato dopo l’ingresso al numero 10 di Downing Street.
Il taglio del latte portò ad un risparmio di nove milioni di sterline, cosa che le sarebbe stata rinfacciata anche da Primo Ministro. Ma Thatcher continuava a mantenere il filo diretto con gli elettori. «Scriveva e rispondeva personalmente a centinaia di lettere, partecipava a tutte le riunioni pubbliche, visitava mercati e fabbriche». Poi la lobby dei minatori dichiarò sciopero per cinquanta giorni. E il Governo Heath si piegò alle richieste. A parte l’entrata nella CEE, «Heath e i suoi ministri avevano raggiunto ben pochi […] obiettivi». Perse le elezioni del 1974, il Partito Conservatore passò all’opposizione. «Margaret nutriva un genuino rispetto il capo del governo in carica, Harold Wilson [Primo Ministro dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976]. Ma detestava i principi del Socialismo e del collettivismo; e azzannare ai polpacci il Cancelliere dello Scacchiere, il laburista Jim Callaghan […] si rivelò un’occupazione molto più piacevole del previsto».
Dopo il flop dei Conservatives, la Lady (non ancora di “ferro”) avrebbe tentato la scalata al vertice del partito, provocando i malumori di Heath («Se proprio devi …») e l’incredulità del marito («Devi essere impazzita»). L’ex Primo Ministro mobilitò mari e monti per scalzare l’avversaria. Che vinse e proclamò: «Il nostro sistema capitalista produce standard di prosperità e di felicità ben più alti, perché è un sistema che crede negli incentivi e nelle opportunità e perché si fonda sulla dignità e sulla libertà dell’uomo». Era l’inizio della stagione thatcheriana, cosa che, innanzitutto, avrebbe richiesto anche un cambio di look della Lady. Se le perle che le aveva regalato Denis in occasione della nascita dei figli «non erano negoziabili», il filtro tra vita pubblica e vita privata venne apposto nel campo dell’alimentazione e del vestiario. La pettinatura venne ulteriormente studiata, il colore degli abiti doveva sempre richiamare al colore dei Tory.
Callaghan – successore di Wilson dal 1976 al 1979, «apprezzato perfino da una parte dell’elettorato conservatore» – venne sconfitto alle urne da Thatcher e dal fortunato slogan «Labour isn’t working» (i disoccupati erano oltre un milione e mezzo). Con quarantatré seggi di maggioranza a Westminster, quando Thatcher arrivò a Downing Street nel maggio 1979, la Gran Bretagna – il gran malato d’Europa – era costellata da scioperi selvaggi, scontri, blackout, crisi energetiche, razionamenti scolastici, sindacati e minatori onnipotenti. Puntualissima, come d’abitudine, venerdì 4 maggio Elisabetta II la ricevette a Buckingham Palace. L’anomalia di una donna Primo Ministro attirò l’attenzione di tutta la stampa occidentale. Scrive Rosaspina: «E chi le domandava come ci si stesse “a essere un Primo Ministro donna” era freddamente liquidato in automatico: “Non so, non ho mai sperimentato l’alternativa”, nella speranza di far sentire l’interlocutore almeno un po’ stupido». There was no alternative.
Difatti, la politica interna di Thatcher fu caratterizzata dal(la scusa del) “TINA”. Al governo del paese per oltre un decennio, Thatcher diede pesanti sforbiciate alla spesa pubblica improduttiva. L’inflazione, che era in doppia cifra e penalizzava i meno abbienti, venne abbassata. In seguito, dopo tre mesi di sciopero, fece chiudere gli stabilimenti improduttivi di acciaio in Galles. Il Governo Thatcher risultò vincitore dal braccio di ferro contro i minatori. Secondo la Lady, l’abbandono dei pozzi improduttivi era d’obbligo. Ricorda Rosaspina che «in nove anni dal suo insediamento a Downing Street, Mrs. Thatcher sarebbe riuscita a ridimensionare l’aliquota massima sui redditi dall’ottantatré al quaranta per cento, senza aumentare il deficit». L’amministrazione americana dell’epoca condusse sì la medesima politica, «ma raddoppiò il deficit di settantanove miliardi». E ancora oggi c’è chi accusa Thatcher di populismo, quando la demagogia populista impone l’uso smodato della spesa pubblica.
Difetti tanti, pregi altrettanti. Margaret Thatcher era intransigente, una grande lavoratrice: amava lo studio, simbolo del merito. «Non sono stata fortunata, me lo sono meritato», disse più volte. Negli anni, Thatcher aveva stretto e rafforzato un patto implicito con gli elettori: risanare l’economia britannica. Tratto distintivo della sua azione politica era l’indifferenza all’impopolarità che le scaturiva dai tagli dell’enorme spesa sociale. Thatcher non si curò dell’abbattimento del welfare e dell’enorme impopolarità che questo comportava. Gli scioperi erano all’ordine del giorno, ma col tempo i suoi tre governi riuscirono a ristabilire il law and order, condizione che in primis aiuta i lavoratori. Thatcher sembrava disinteressata ai disagi sociali che diverse sue politiche provocarono. Piaccia o non piaccia, la cura da cavallo imposta alla Gran Bretagna degli anni Ottanta era in parte necessaria (“TINA”, ancora).
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Istituto Liberale Italiano – Blog)