La politica estera di Ronald Reagan fu molto controversa. Al netto della vittoria finale sull’URSS, l’amministrazione statunitense degli anni Ottanta mostrò limiti e crepe in diverse situazioni geopolitiche. Tra queste, Centro America (Grenada e Nicaragua), Medioriente (Israele ed Iran), Africa (Libia e Sud Africa). Ogni presidente americano, in politica estera, ha una propria “dottrina”. Quella di Reagan, la Reagan Doctrine, fu coniata dal Premio Pulitzer Charles Krauthammer per indicare una versione aggiornata della Dottrina Truman. E cioè evitare l’installazione di governi comunisti nel mondo. Secondo Krauthammer, ciò fu possibile nei “Roaring Eighties” grazie al finanziamento dei contras in Afghanistan, Nicaragua, Angola e Cambogia. Conformemente alla Dottrina che portava il suo nome, Reagan si sentiva un presidente di guerra e così agiva. Come molti prima di lui alla Casa Bianca, non ha esitato ad invadere territori nemici e finanziare gli amici di Washington.
Questo fu palese in particolar modo in Centro America. Del Sud America si era preoccupata di più l’amministrazione di Richard Nixon, sempre in chiave antisocialista e anticomunista. Il Centro America è stato il luogo prediletto della politica estera reaganiana “materiale”, mentre l’URSS della politica estera “immateriale”, dal momento che mai ci fu un confronto militare con Mosca. Reagan considerava il Centro America come il teatro più a rischio per l’affermazione del Comunismo nel raggio statunitense. Assieme al Nicaragua, dove l’amministrazione USA non faceva mistero di finanziare i contras, fu l’isola di Grenada il centro della preoccupazione reaganiana. Come ha spiegato Henry William Brands (Reagan. A life), la maggior parte degli americani non aveva mai sentito parlare di Grenada prima dell’era-Reagan. Il governo di Grenada era ultra-marxista e visto il coup d’état contro il Primo Ministro Maurice Bishop, protégé di Fidel Castro, il campanello d’allarme suonò alla scrivania dello Studio Ovale.
L’invasione del piccolo paese fu una sorpresa per tutti: avvenne in maniera fulminea. Anche i critici di Reagan, continua Brands, non ebbero il tempo di reagire. Su Grenada, pesava la tremenda ombra del Vietnam (sindrome-paura che accomuna tutti gli inquilini della Casa Bianca). Rimanere impantanati per anni nel territorio nemico non si poteva escludere. Reagan credeva che tenere Grenada in ottica atlantica e non comunista fosse essenziale. L’operazione fu talmente segreta che Reagan non avvertì neppure Margaret Thatcher (l’isola era stata parte del Commonwealth fino al 1974). Sebbene avesse appena vinto la battaglia delle Falkland (1982) e Thatcher stessa non avesse grosse relazioni col Commonwealth, a Downing Street non mandarono giù facilmente l’iniziativa unilaterale di Washington, che tra l’altro si era mostrata timida con Londra nella difesa delle Malvinas.
Quella di Grenada fu la seconda grossa divergenza tra i due neoliberisti; la prima fu sulla risposta militare all’aggressivo espansionismo di Leopoldo Galtieri. La leader dei conservatori britannici si sentì tradita dal Presidente e non capiva l’instabilità caraibica. D’altra parte, molti nel GOP credevano che Grenada fosse più importante rispetto alle isole del conflitto argentino. Lasciando l’America Centrale, diversi limiti della politica estera reaganiana emersero nel Mediterraneo. “Gipper” non era interessato al Medioriente: non lo capiva e quindi non è che lo studiasse tanto. Negli anni Ottanta, gli Stati Uniti in Medioriente erano deboli (l’URSS aveva già invaso l’Afghanistan nel 1979). La politica estera reaganiana preferiva guardare alla “big picture”, al mondo comunista nel suo complesso. Non si è mai messo a studiare le divisioni storiche mediorientali, cosa che invece Jimmy Carter aveva fatto con successo, fino agli accordi di Camp David del 1978, tra Menachem Begin e Anwar Sadat.
L’amministrazione Reagan però, più per motivi economici che geopolitici, contava sull’Arabia Saudita per continuare la lotta anticomunista in Medioriente, ma le relazioni con Riyad non furono mai approfondite, visto che Israele si oppose a più riprese. Cosa che non piacque a Reagan. Il quale ribadiva l’amicizia con lo Stato ebraico, ma non fu, di tutti i presidenti americani, quello più vicino a Tel Aviv. Che fosse amico di Israele e del suo popolo era indubbio, ma l’impatto reaganiano fu modesto in quell’area. Reagan sapeva che in Medioriente ci si “scotta”: e ci si sono scottati tanti presidenti, compreso il suo successore allo Studio Ovale e suo figlio. L’ex attore di Hollywood aveva incassato, non per merito suo, la liberazione degli ostaggi a Teheran il giorno della sua investitura alla Casa Bianca nel primo mandato (gennaio 1981); per lui poteva bastare.
I rapporti con l’Iran erano congelati e così dovevano restare. E a proposito di Iran, Reagan tra l’altro ne aveva abbastanza: lo scandalo Iran-Contra – l’Irangate – bloccò l’amministrazione americana per mesi. Washington aveva violato l’embargo vigente sul paese degli ayatollah e questo aveva minato la credibilità degli Stati Uniti in tutto il mondo. L’Africa, infine, è un continente del tutto dimenticato da quasi tutte le amministrazioni americane; quella attuale compresa, a vantaggio della Cina. E fu dimenticata o quasi anche nei due mandati Reagan. Sebbene Muʿammar Gheddafi causò diversi mal di denti all’Europa e a Washington per i suoi attacchi terroristici, dirottamenti, minacce nucleari e alleanze con nemici dell’Occidente, l’attenzione per il continente africano nel suo complesso è stata molto bassa.
Logiche di Guerra Fredda, si dirà, ma l’amministrazione Reagan – in chiave anticomunista – supportava il governo dell’apartheid di Pieter Willem Botha. Il quarantesimo Presidente statunitense, già non apprezzato dalla comunità afroamericana, criticò il premio Nobel per la Pace Desmond Tutu, il quale condannò a sua volta la politica reaganiana come immorale e opposta al cristianesimo. Alla fine, d’altra parte, il governo americano rinnovò le sanzioni in Sudafrica, che durarono fino al 1994. Tra successi e insuccessi, l’America di allora era veramente great: grande nel senso che si espandeva, voleva contare, si faceva leader di proposito, trainava ogni paese del “mondo libero”. Sbagliava tante volte e tante volte ci prendeva.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su neXtQuotidiano)