L’ascesa dei partiti demagogici e populisti, le emigrazioni dei talenti, le fragilità dell’UE e le polemiche attorno all’Euro, la crisi bancaria e quella del debito, minano il sistema-Italia. Eccessiva pressione fiscale, burocrazia imperante, lentezza ed inefficienza della giustizia, rigidità del mercato del lavoro, corruzione ed evasione avvelenano i presupposti di crescita del Belpaese. «Siamo alle solite», diranno alcuni, ma secondo Alan Friedman, autore di Questa non è l’Italia (Newton Compton 2019) quella di oggi «non è più l’Italia patria della cultura e della tolleranza». Oggi «sono saltati i freni inibitori». E si è aperta un’autostrada lastricata di istinti rabbiosi e paure ataviche in un paese che «ha sempre mostrato certa inclinazione per gli uomini forti». L’Italia è un paese malato, stanco, vittima dei suoi stessi paradossi. Certo, negli ultimi anni l’unico volano dell’economia è stato l’export, ma i consumi interni sono stati bassi.
Idem per la produttività del lavoro, cresciuta dal 1995 al 2017 dello 0.4 annuo, contro l’1.5 della Germania nello stesso periodo. Altri crucci di un paese febbrile sono la pressione fiscale – quarantadue per cento – e l’enorme fetta di welfare dedicata alle pensioni. Come cresce un paese che investe solo o quasi negli anziani? Conclamato che Quota 100 e Reddito di Cittadinanza non hanno incrementato il livello occupazionale, il Belpaese si avvia, strisciando, verso proiezioni di crescita economica pari allo 0.1 per cento nel 2020. Secondo Friedman nell’ultimo decennio in Italia c’è stata una sorta di trasformazione antropologica. Il paese si sarebbe incattivito. Colpa solo della crisi economica? «Il Belpaese ha scelto di ascoltare il canto delle sirene, di seguire i venditori di fumo, i profeti che giurano di rendere l’Italia di nuovo “bellissima”». E l’abbiamo visto venerdì 31 maggio 2019, quando la Grecia pagava interessi sul debito più bassi dell’Italia.
“Anno bellissimo” (copyright Giuseppe Conte). Oggi l’Italia spende di più in interessi sul debito che in istruzione. La performance peggiore in termini di investimenti in educazione, scuola e ricerca: peggio di Bucarest e Dublino. Il Quantitative Easing ha mantenuto i tassi d’interesse bassi nella zona Euro ed è stata una grande occasione sprecata. Sprecata tra le sterili polemiche aizzate contro Bruxelles e il mitico spread (che se fosse zero in relazione alla Germania farebbe risparmiare al Belpaese in media trenta miliardi di Euro, secondo l’Osservatorio CPI). «Noi non siamo in guerra con l’ISIS e la Russia, siamo in guerra contro la BCE», tuonò Beppe Grillo nel novembre 2014. Il comico si era dimenticato che al vertice dell’istituto di Francoforte c’era qualcuno che di certo ha tentato di aiutare l’Italia: Mario Draghi, «il policy maker più potente di tutto il continente […], custode dell’Euro, odiato dai populisti, rispettato e temuto».
Quando i cosiddetti populisti arrivano al governo non possono che scontrarsi contro il principio della realtà dei conti pubblici. Essi optano per mossa più facile per chi ha le leve dell’esecutivo. Debito (cresciuto negli anni Ottanta, equivalente oggi a circa trentottomila Euro pro-capite, neonati inclusi) e deficit che danneggiano i conti pubblici. E ai demagoghi, convinti statalisti, piace aumentarli. Loro, che «in tempi normali, restano ai margini della società, ne rappresentano solamente una piccola parte. Ma in presenza di gravi crisi o traumi collettivi […] possono trasformarsi in movimenti politici di massa». In Italia, i grandi sovvertitori demagogici hanno preso di mira i settori economici più poveri della società, aizzandoli contro il cosiddetto establishment, contro le élite. E d’altra parte, «la paura dello straniero è stata marchiata a fuoco nel cervello dei fan degli estremisti».
A proposito di Matteo Salvini, Friedman spiega che «gioca a fare il macho con immenso piacere. I suoi fan se la bevono. Adorano l’intransigenza del loro Capitano» (titolo che si è auto-conferito), che riesce «a manipolare la questione dell’immigrazione». SI ricordi che durante la permanenza al Ministero degli Interni ha partecipato una volta (su sette) alle riunioni del Consiglio “Giustizia e affari interni” dell’UE. «Me ne frego», è stato per mesi il suo motto, prima della calura agostana all’autorevolissima adunata-show al Papete. Secondo Alan Friedman «Salvini vorrebbe fare il re dei sovranisti europei, ma […] quelli che dovrebbero essere i suoi alleati […] non hanno alcuna intenzione di riconoscerlo come leader». Soprattutto, non vogliono saperne di pagare i debiti italici. Nei confronti del leghista, «Marine Le Pen si dimostra amichevole, ma è improbabile che sia disposta a combattere per […] maggiore flessibilità sui conti pubblici italiani».
Sconfitti – per ora e apparentemente – alle elezioni europee dello scorso maggio, i partiti demagogici-antisistema preoccupano gli osservatori e gli investitori internazionali. Questi, spaventati dalle posizioni italiane in termini di politica estera: lontane dai partner storici, non più filo-atlantiste. A livello internazionale, sembra che le alleanze geopolitiche dell’Italia abbiano subito importanti alterazioni. Una tattica sciocca e scellerata, pericolosa e masochista quella di «allontanare l’Italia dalle istituzioni e organizzazioni multilaterali strategiche». Un qualcosa che non solo isola il Belpaese, ma lo espone alle vendette commerciali dell’aquila americana e allo spolpamento industriale del Dragone cinese. Risultato? L’Italia non conta niente nei summit internazionali. Secondo Alan Friedman, a solleticare gli istinti dei leader populisti europei sarebbe Steve Bannon, «Darth Vader della politica americana».
Ex dirigente di Goldman Sachs, l’ex direttore di “Breitbartnews” fa il pauperista e attacca le élite globali: è la musa ispiratrice dei piccoli “The Donald” europei, in sintonia sempre maggiore con gli autocrati dell’Est, del Medioriente, dell’America Latina. E proprio di alcuni Paesi del Sud America l’Italia rischia il destino. La ricetta per evitare di danzare sul baratro? In parte, è la stessa da almeno tre decenni. Stimolare la crescita, incentivare le assunzioni, promuovere premi salariali, aumentare gli sgravi fiscali sulla digital economy, abrogare Quota 100 e RdC, investire in istruzione, riformare la PA, riformare la giustizia civile, lanciare un piano di privatizzazioni. L’Italia ha perduto un quarto di secolo, ma «solo l’Italia può salvare l’Italia». Quell’Italia che non è più, secondo Friedman, l’Italia di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, o di Giulio Andreotti e Bettino Craxi e neppure quella di Silvio Berlusconi e Romano Prodi. È un’altra cosa.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)