Vittorio Zucconi e il mestiere di un cronista americano

Nella “terra dei liberi”, come definiva la “sua” America, Vittorio Zucconi era arrivato il 10 agosto 1973: una vita fa. Dodici anni dopo si sarebbe trasferito a Washington, dove questa notte si è spento all’età di settantaquattro anni. Il senso dell’umorismo e del dettaglio non mancavano al barbuto cronista americano. Per molti dei suoi numerosi lettori era “solo” il corrispondente dagli Stati Uniti di Repubblica, ruolo che per anni ha diviso con Federico Rampini, ma alle spalle Zucconi aveva un passato professionale brillante. Cosa che in parte gli proveniva dal cognome che portava. Il padre, Guglielmo Zucconi, a sua volta è stato un grande giornalista; storico volto tv, direttore di diversi giornali nazionali. Quando Zucconi junior superò l’esame di giornalista, il padre gli regalò un cucchiaino d’argento. Singolare la dedica: «Hai scelto un mestiere in cui ogni giorno mangerai cucchiaiate di merda. Che almeno il cucchiaio sia bello».

La carriera giornalistica di Zucconi iniziò presto nella capitale lombarda, dove si era trasferito dalla profonda Emilia in cui era nato. Diplomato al Parini collaborò al giornale studentesco La zanzara – palestra di tanti promesse del giornalismo, a partire da Walter Tobagi. Ne divenne anche direttore: una rampa di lancio per il futuro corrispondente dal mondo. Dopo la laurea in Lettere, andò al giornale di Nino Nutrizio La Notte che divenne cronista da marciapiede. In seguito, passò al quotidiano torinese La Stampa, dove il direttore Alberto Ronchey lo mandò come corrispondente a Bruxelles e Washington. Andò a Parigi per la Repubblica di Eugenio Scalfari e a Mosca per il Corriere della Sera di Franco Di Bella. Poi in Giappone, Israele, nelle Filippine, negli Stati Uniti, in Messico e a Cuba. La Guerra Fredda l’ha importata in Italia attraverso la sua scrittura.

Fino all’anno scorso, Vittorio Zucconi è stato anche al vertice di Radio Capital. America, Asia, Medioriente, Europa centrale, d’accordo, ma sempre con una dose massiccia di attenzione verso l’Italia, alla quale era affezionato, ma che guardava con gli occhi di chi si era emancipato dal provincialismo. Negli anni Settata seguiva le vicende di terrorismo e gli intrecci tra malaffare e politica. Dalla cronaca da strada, ai racconti della Casa Bianca, da cui ha raccontato la scintillante stagione di Ronald Reagan, quella unipolare di George H. W. Bush, pop di Bill Clinton, bellica di George W. Bush, controversa di Barack Obama prima e di Donald Trump dopo. Vittorio Zucconi conosceva bene gli americani. Il donnone del Texas, il contadino del Montana, l’intellettuale di New York, il lattante dell’Ohio, l’imprenditore della California, il lobbista di Washington li criticava e li ammirava per la loro grinta nei momenti più bui della loro storia.

In quei momenti Zucconi era lì con loro: dalle guerre del Golfo, ai traumi post-11 settembre, fino alla crisi economica del 2007. Certo, la comoda e scontata tentazione di denigrare il gigante a stelle e strisce la riconosceva anche lui e la rivendicava nei numerosi libri che ha scritto sull’“Homo Americanus”. Spesso Zucconi faceva paragoni tra il popolo italiano e quello americano. Nella frase seguente, tratta da L’aquila e il pollo fritto del 2008, sintetizzava i suoi due amori giornalistici di una vita, America e Italia. «Gli americani amano la Presidenza, non necessariamente il Presidente, al contrario di quanto facciamo noi italiani, che amiamo l’istituzione soltanto se a occuparla c’è, occasionalmente, uno che ci piace». Uno spunto di riflessione, tra l’altro, per il voto europeo di oggi.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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