Il politico populista non ha scrupoli. Ciò che gli interessa, ricorda Jan-Werner Müller in Che cos’è il populismo? è conquistare tutto il corpo elettorale. Non solo muoversi nell’area di destra o sinistra e al massimo contendersi con il rivale i voti al centro. Il demagogo vuole tutto il “piatto”: il corpo elettorale gli deve appartenere nella sua interezza. Fatta eccezione per il nemico di cui ha bisogno per sopravvivere, il populista mira al consenso assoluto. Come sono nati i moti di pancia che sembrano consolidare sempre di più a livello nazionale il loro successo nel Vecchio Continente? Tra le maggiori cause, c’è la miopia delle élite, incapaci di avvertire l’arrivo dell’onda populista e i malcontenti sociali. Elitismo e populismo sembrerebbero essere due termini agli antipodi. Tuttavia, entrambi vedono la diversità e eterogeneità come pericolo.
La condizione di sottomissione del “popolo” auspicata dal demagogo è quella di una sorta di nudità ancestrale che riporti il suddito alla povertà originale, alla massima uguaglianza con i suoi simili. Dunque, annientando, in ultima sede, la libertà e l’identità individuale. Il moltiplicarsi dell’invidia e dell’odio sociale è spesso frutto di certe retoriche demagogiche. I sacerdoti di quel grattare la pancia allo scontento generale e quell’annunziare facili soluzioni, da una parte fanno dell’avversione ai metodi di selezione le élite la loro battaglia, ma dall’altra non promuovono sistemi meritocratici di selezione delle classi dirigenti. Sebbene le forze populiste si appellino sempre al concetto di giustizia, rimuovere le élite dagli scranni del potere diventa per loro imperativo. Una volta scalzati i cosiddetti privilegiati, sono i populisti stessi, ironia della sorte, a trasformarsi in una nuova casta.
Dal canto loro, l’errore fatale che un’élite possa compiere è l’eccessivo “imborghesimento”, inteso come volontaria astrazione dalla realtà delle cose e del vissuto sociale di gran parte dei propri concittadini, dovuto in parte anche all’eccessiva autoreferenzialità delle élite stesse. I membri delle élite dovrebbero saper vedere lontano. Cosa che dovrebbe eliminare la diffusa tendenza snobistica e a tratti arrogante che parecchi suoi membri mostrano nei confronti di chiunque sia fuori del nobile recinto. Le classi dirigenti devono capire quando è il caso di tornare con i piedi per terra. Se vengono selezionate secondo le regole del mercato e del merito, le élite che emergono non dovrebbero essere sciocche e miopi. E quindi dovrebbero essere teoricamente in grado di capire i cambiamenti e i mal di pancia sociali.
Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2018) ha scritto che le élite «hanno assunto un carattere sempre più odiosamente ereditario. Il principale titolo d’accesso è diventato essere figlio di». Nel caso italiano, le élite hanno tre caratteristiche: «l’età perlopiù avanzata […], l’assai scarsa presenza di donne […]; e infine la basica formazione o provenienza ideologica di centrosinistra di quasi tutti». Le élite vogliono conservare lo status quo. A differenza delle forze populiste temono le campagne elettorali. Da una parte le élite fanno della “calma istituzionale”, del non sommovimento degli strati sociali, dell’immobilismo dei loro interessi, la loro massima necessità per sopravvivere. Dall’altra tengono aperti degli spiragli per costruire avamposti di potere verso altri organi.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)