«Il populismo non è né la parte autentica della moderna politica democratica né una specie di patologia causata da cittadini irrazionali» spiega Jan-Werner Müller (Che cos’è il populismo?). Esso può essere e di destra e di sinistra. Il populismo è un metodo di offerta politica che accomuna gli orientamenti partigiani sotto diversi profili. Il più vistoso denominatore comune – oltre che l’uso scellerato del denaro pubblico, lo statalismo, l’odio di classe, l’imposta divisione sociale manichea – è l’invidia verso determinati gruppi di persone. Il Socialismo, che storicamente ha sempre utilizzato il metodo populista, «è la filosofia del fallimento, il credo dell’ignoranza, il vangelo dell’invidia», spiegò Winston Churchill. Il populismo di destra e quello di sinistra s’incontrano perfettamente nel Nazional-Socialismo, che prevede la stigmatizzazione di alcuni gruppi sociali, l’elevazione della nazione ad unicum, l’omogeneizzazione dei cittadini sotto lo Stato-padrone. Quasi tutti i populismi hanno un impianto nazional-socialista.
L’uso di una retorica nazionale da una parte, il ricorso alla leva economica in salsa socialista dall’altra. Il populismo è una reazione «alla sensazione di abbandono provata dai lavoratori dei paesi più sviluppati in conseguenza alla globalizzazione e dell’aumento delle diseguaglianze», ha scritto Thomas Piketty (Le Monde, 17 gennaio 2017). L’interpretazione che collega l’esplosione populista alla rabbia si rifà alla tradizione socialista. È attorno a questa che si articola l’offerta dei populismi in materia economica. Difatti, la politica economica del metodo populista a destra è simile a quella del metodo populista a sinistra. In termini di sussidi, assistenzialismo, soldi a pioggia, statalismo, burocrazia, parole d’ordine e appello al popolo, i populismi di tutti i segni sono indistinguibili. Così come indistinguibili lo sono nell’anti-elitismo e nell’anti-meritocrazia. L’anti-elitismo di sinistra è un rilesso della tradizione socialista. Ed è simile a quello della destra, che galvanizza alcuni ceti facendo leva su valori conservatori.
I leader demagogici, scrive Francis Fukuyama (Identità), «rivendicano una connessione carismatica diretta con “il popolo”, […] definito in ristretti termini etnici […]. Non amano le istituzioni e cercano di indebolire i sistemi di controllo e i contrappesi che limitano il potere personale». Nell’ottica dei due populismi, il popolo viene costruito come un agente uniforme che lotta contro “i potenti”. «Forse nel XXI secolo», scrive Yuval Noah Harari (21 lezioni per il XXI secolo) «le rivolte populiste saranno inscenate non contro un’élite economica che sfrutta il popolo, ma contro un’élite economica che non ha più bisogno […] del popolo». Un altro elemento di tradizione socialista che accomuna i populismi, è l’odio di classe. L’astio verso chi dispone è giustificato sia a destra quanto a sinistra dall’intenzione di rendere tutti uguali, confiscare determinati beni, fare “giustizia sociale”.
D’altra parte, l’odio di classe, un prodotto dell’invidia, come scrive Panfilo Gentile (Democrazie mafiose) «non si alimenta solo della contrapposizione tra poveri e ricchi. È un odio più generale […] e non mira tanto all’eliminazione della propria inferiorità, quanto all’abolizione della superiorità altrui. Perciò gli invidiosi prediligono i partiti più provvisti di carica vendicativa. I partiti comunisti, sotto questo punto di vista, meritano maggior fiducia. Essi sono degli eccellenti giustizieri». Il cosiddetto giustizialismo è uno degli elementi che accomuna i populismi di destra e di sinistra. Quando poi arriva al governo, il metodo populista impone ai suoi interpreti l’uso del populismo penale. Questo, definito da Anthony Bottoms come una tecnica di consenso che prevede l’uso del Codice Penale per definire i nemici ed elevare se stessi come gli unici depositari della legge.
Anche il degagisme – coniato nella rivoluzione dei gelsomini contro Zine El-Abidine Ben Ali – è un elemento corteggiato dai populisti di destra e di sinistra. Esso rappresenta la richiesta popolare all’élite di farsi da parte. Sia a destra che a sinistra, piazze incendiate e grondanti di disprezzo verso le classi politiche del proprio paese hanno espresso la volontà di un cambio radicale ai vertici dello Stato. Negli anni, i leader populisti di destra e di sinistra hanno incitato milioni di cittadini a disprezzare le proprie classi dirigenti. Sotto a quel disprezzo, è ipotizzabile una buona dose d’invidia. L’invidia di non avere avuto più risorse dallo Stato. O peggio: che le stesse siano andate ad “altri”. I populisti di sinistra, ma oggi anche quelli di destra, spiegano Ilvo Diamanti e Marc Lazar (Popolocrazia), si adoperano per maggiori protezioni sociali del movimento operaio.
«I populisti esprimono il desiderio di una società chiusa […] contro una società aperta». Una logica dettata non tanto dallo scontento, ma dall’invidia. Quasi tutti gli scontenti in politica presuppongono l’invidia sociale. E uno dei case study più rilevanti dove l’invidia sociale è ben sviluppata è l’Italia. Maurizio Molinari (Perché è successo qui) scrive che «la mancata elaborazione della totale sconfitta del Fascismo nel 1945 è all’origine delle ambiguità delle forze populiste nel ricorrere a simboli e tesi dell’ultradestra, così come la mancata elaborazione della totale sconfitta del Comunismo sovietico durante la Guerra Fredda porta a un simile cortocircuito nelle forze di sinistra». Non stupisce un’affezione storica verso il metodo populista. «I comunisti […] negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto una componente populista, con la loro critica della democrazia borghese, la loro denuncia delle classi dominanti […] e i loro sperticati elogi al popolo» (Diamanti e Lazar).
Al contempo, molti a destra fanno parte di «una famiglia politica dove un tempo erano in molti a condannare le politiche sociali […]. Ora ostentano uno sciovinismo sociale e dichiarano che queste misure devono essere riservate ai cittadini, e non agli stranieri». Il “razzismo” di alcuni movimenti populisti, altro non è che un riflesso dell’invidia sociale nei confronti di chi potrebbe accaparrarsi determinate risorse. Da qui, in ottica populista, la necessità di creare un “noi” contro “loro”, “bianchi” contro “neri”. I populisti di tutti i colori politici hanno solide basi nel razzismo, che – parafrasando Ayn Rand – è la peggior forma di collettivismo. Essi, collettivisti par excellence, dicono di voler “ridare” chi identità, chi risorse al “popolo”, escludendo al contempo altre porzioni sociali, facendone capri espiatori.
I populisti fondano la loro offerta politica sul sottrarre a chi ha per ridistribuire pauperisticamente a chi non ha e che sente il dovere, per invidia e frustrazione, di “livellare” situazioni sociali squilibrate. La soluzione per abbattere il muro dell’invidia sociale è il dialogo con il prossimo e l’accumulo di informazione e conoscenza di qualità. Harari scrive che «la gente fatica a rendersi conto della propria ignoranza, poiché si confina in ambienti di amici con idee simili alle sue dove ci si scambia informazioni e si auto confermano». Questo aspetto è sfruttato dai populisti, che artificialmente creano differenze manichee nella popolazione. Harari spiega che i peggiori crimini nella Storia moderna derivavano non tanto dall’odio di alcuni, ma dall’ignoranza dell’indifferenza dei molti. L’ignoranza collega l’indifferenza all’invidia. E nella politica, il metodo populista di condurre la cosa pubblica si serve dell’invidia sociale per prosperare.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)