La vittoria di Ronald Reagan e l’ottimismo ritrovato

Tra crisi petrolifere, inflazione a doppia cifra, disoccupazione alta, tensioni nel Medioriente, ostaggi americani in Iran, un’URSS che invadeva l’Afghanistan, le presidenziali americane del 4 novembre 1980 si affacciavano al balcone della Storia. Con un discorso all’Hilton di New York il 13 novembre 1979, Ronald Reagan decise di correre per le presidenziali dell’anno dopo. “Make America Great Again” è uno slogan reaganiano, prima dello scippo del medesimo da parte di un suo successore. Tra l’altro, come rivelato nel suo An American Life, Reagan avrebbe dovuto chiamarsi Donald e non Ronald. Vinte le primarie del Grand Old Party, scelse il secondo arrivato per la nomination repubblicana, George H. W. Bush. Da subito, il candidato Reagan, sul quale pesava l’ombra del conservatore Barry Goldwater – nonché le invidie di Nelson Rockefeller e Gerald Ford, quindi le ambiguità di Richard Nixon – era anticonvenzionale e fuori dagli schemi.

Attore negli anni Quaranta, governatore della California negli anni Sessanta, Reagan si era distinto per una retorica carismatica e non aggressiva, enfatica e calorosa. Aveva capito il sentimento della classe media americana, ma stentava a definirsi un politico. D’altra parte, era esponente del conservatorismo repubblicano, a cui seppe aggiungere dosi di liberalismo economico e non solo. Alle elezioni del 1980, lo sfidante era Jimmy Carter, che considerava Reagan populista nonché espressione della “destra pericolosa”. Proprio Carter che, come Nixon e Ford, sosteneva regimi come quello di Augusto Pinochet. Nel suo libro A Full Life, Carter non parla male di Reagan, ma neppure bene. «Sfortunatamente, il mio rapporto con il Presidente Ronald Reagan era teso e in diversi primi viaggi all’estero durante la sua amministrazione, ho appreso che gli ambasciatori degli Stati Uniti erano stati istruiti a non darmi alcuna assistenza o persino a riconoscere la mia presenza».

Carter intratteneva buone relazioni con il futuro Segretario di Stato George Schultz. L’ex produttore di arachidi tenne il discorso d’inizio campagna elettorale nella sua Georgia, a Warm Springs. Proprio dove Franklin Delano Roosevelt, votato dal giovane Reagan più volte negli anni Trenta, fu curato per la poliomielite. Il dibattito finale Carter-Reagan avvenne una settimana prima delle elezioni. Queste, dominate da crisi iraniana e politica interna statunitense. Se Carter guardava agli Stati Uniti come partner commerciale amico di tutti, Reagan voleva trasformare l’America in una fortezza antisovietica che avrebbe dovuto dissanguare Mosca. Nelle elezioni del 1980 il rapporto tra politica e religione fu decisivo. Donatella Campus (L’antipolitica al potere) ha scritto che la campagna «vide scontrarsi due candidati entrambi molto predisposti al modello retorico religioso-predicatorio […]. Il dibattito conclusivo […] si chiuse con la famosa domanda posta da Reagan agli elettori: “State meglio oggi dopo quattro anni di amministrazione Carter?”».

Nella sua biografia, il dem georgiano spiega che la destra religiosa sosteneva Reagan, il quale «non era mai stato affiliato a nessun gruppo cristiano […] e da governatore aveva sostenuto una legge che era più permissiva circa gli aborti illimitati di qualsiasi altra negli Stati Uniti». Come ha scritto Henry William Brands (Reagan. A Life), Carter non aveva fascino personale. «Dove Carter doveva difendere il passato, Reagan poteva promettere il futuro». Questo elemento fu percepito da molti americani che consegnarono al cowboy oltre otto milioni di voti in più rispetto al presidente uscente. Nonché quarantaquattro stati, dunque il 50.8 per cento dei voti. Dopo le dimissioni di Nixon (che batté Reagan alle primarie del 1968) e la presidenza anonima di Ford (che lo aveva battuto nel 1976) i repubblicani presentarono un candidato ottimista.

L’ottimismo reaganiano doveva però scontrarsi con l’alta disoccupazione e il manifatturiero in crisi. L’anno prima l’inflazione era al diciotto per cento (nove anni dopo arrivò al quattro). Nel 1981 la disoccupazione era al 7.5 per cento (otto anni dopo arrivò al 5.7). Il discorso d’inaugurazione fu tenuto davanti a mezzo milione di persone. Fu il Senatore dell’Oregon Mark Hatfield a decidere di spostare il giuramento nella parte frontale di Capitol Hill, quella sul National Mall. A partire dal novembre di quarant’anni fa Reagan ridiede fiducia all’America e all’Occidente. «Per essere un grande leader», come scrive Michael Reagan (Lessons My Father Taught Me), «devi prima essere un buon essere umano. E il primo tratto di un buon essere umano è l’umiltà». Dote importante e dimenticata dai leader politici di oggi.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su Nazione Futura)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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