I grandi imperi sopravvivono se sono lungimiranti. E la Cina di oggi, impero silente per decenni, non fa mistero della sua capacità di pensare in termini di generazioni. «Le oche cinesi sanno volare lontano e in sicurezza, attraverso venti e tempeste, perché si muovono in stormi e si aiutano l’una con l’altra, come una squadra», ha detto Xi Jinping nel 2017. «Il loro messaggio è che il modo migliore per affrontare le sfide e per raggiungere lo sviluppo migliore è attraverso la cooperazione». La Cina di oggi da una parte usa il suo enorme potere di investimento economico per comprare influenza in ogni anfratto del pianeta. Dall’altra porta avanti l’espansionismo culturale tramite prestiti facili e indiscriminati, cosa che fecero anche Stati Uniti e URSS durante la Guerra Fredda. Tuttavia, all’epoca c’era rispetto delle proprie aree di influenza. E ogni volta che l’equilibrio geopolitico veniva rotto l’equilibrio veniva poi ristabilito.
La Cina di oggi, invece, non appone alcun tipo di filtro: sa che il multilateralismo è una delle chiavi vincenti della Seconda Guerra Fredda. Nel secolo scorso, i due colossi che si spartivano il mondo difendevano le proprie aree d’influenza, anche a costo di colpi di stato pilotati dalle rispettive capitali. I casi che hanno fatto scuola sono due. Il Cile, dove Salvador Allende fu assassinato e al suo posto arrivò Augusto Pinochet. E la Cecoslovacchia, dove Alexander Dubček venne “deposto” e il paese fu normalizzato sotto Gustáv Husák. Durante la Guerra Fredda, Stati Uniti e URSS hanno fatto di tutto per assicurarsi le rispettive aree d’influenza. La Cina di oggi è invece totalitaria. Se ne infischia dell’ideologia degli esecutivi. Li influenza offrendo loro risorse che dovranno poi essere ripagate a Pechino con alti tassi d’interesse. Animata dal nazionalismo cinese, il Dragone presta soldi a tutti.
Il che stride con il vecchio schema Washington-Mosca: quello secondo cui il commercio internazionale a fini politici non si estendeva al di là della rispettiva pax. Il giochino cinese del debito è contestato dalla comunità internazionale, ma al contempo rivela la strategia di lungo termine della Cina. Un esempio clamoroso della trappola del debito è quanto successo in Montenegro. Pechino ha siglato un patto vincolante per la costruzione di un’autostrada lunga poco più di centossessanta chilometri. E come spiega Danilo Taino (Scacco all’Europa), il progetto infrastrutturale ha obbligato il governo di Podgorica ad alzare le tasse. Quindi «a bloccare gli aiuti sociali alle madri e a congelare una parte dei salari dei dipendenti pubblici per tenere sotto controllo le finanze dello Stato».
Come nota Federico Rampini (La seconda guerra fredda), «le grandi opere non sono regalate, sono finanziate da prestiti, e quando il paese che li riceve non riesce a ripagarli, la Cina si rimborsa diventando proprietaria». Essa «espropria al debitore insolvente terreni, miniere, aziende locali». La Cina è una “macchina esporta debiti”. Ad esempio, lo Sri Lanka, insolvente, ha dovuto affittare gratuitamente per novantanove anni a Pechino un porto che la Cina stessa aveva finanziato. Il progetto geostrategico cinese che si estende dall’Asia all’Europa, la BRI, è un lungo filo a cui Pechino aggiunge sempre più perle. Questa incrementerà il dominio cinese sul continente asiatico, nonché su quello africano, dove gli investimenti cinesi negli ultimi anni sono stati massicci. La BRI ha come genitore il Patto di Shanghai del 2001, siglato quando la Cina si stava aprendo al mondo ed era appena stata accolta nella WTO.
Preoccupato dalla deriva dell’imperialismo e del nazionalismo cinese, il fondatore di Singapore, Lee Kuan Yew commentò: «la Cina sta risucchiando i paesi del Sudest asiatico nel suo sistema economico in virtù del suo vasto mercato e del suo potere d’acquisto. Anche il Giappone e la Corea del Sud vi saranno inevitabilmente risucchiati […] senza dover ricorrere all’uso della forza». Dal 2014 al 2018 i cinesi hanno investito 119 miliardi di dollari negli Stati Uniti e 231 in Europa. Un ruolo di rilievo l’ha avuto la AIIB, la Asian Infrastructure Investment Bank, nata nel 2013 e fondata dal PCC. Se la BRI serve come “collante estero” per mantenersi fedeli i paesi annessi, sul fronte interno è il nazionalismo cinese che tiene coeso il popolo a maggioranza Han. Il nazionalismo cinese è un potente un agente unificatore e uniformatore.
In tal senso, Giada Messetti (Nella testa del Dragone) ha spiegato che «il PCC si autorappresenta come una forza che ha saputo storicamente respingere le pressioni esterne sui confini e che ha scritto la parola fine al “secolo delle umiliazioni” da parte degli stranieri». Negli anni Novanta il governo cinese lanciò una campagna di educazione al patriottismo per riaccendere «l’amor di patria, educando la popolazione alla storia in una chiave fortemente nazionalista. Sono stati potenziati musei, memoriali e siti di rilevanza storica». Il tutto «per mettere sotto la lente i conflitti contro il nemico straniero e il […] secolo dell’“umiliazione nazionale”». Il progetto egemonico del Dragone deriva dalla lungimiranza, dalla manipolazione e dal nazionalismo cinese.
Amedeo Gasparini
(Pubblica su neXtQuotidiano)