Il libro di Stefano Bruno Galli Václav Havel. Una rivoluzione esistenziale (La Nave di Teseo 2019) è anzitutto il tentativo di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco. Una raccolta di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro a ridosso della vita di Václav Havel, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione Galli è più culturale che politica. È quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).
I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del libro definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani». Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere». Per vivere in una società libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è necessaria la responsabilizzazione del singolo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero. In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest.
Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa. Una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest. Dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme. «La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica». E così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia.
La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica», un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale. Infestata dal virus totalitario, per decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il trentotto per cento dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia. E doveva prevenire la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.
I tre intellettuali cechi – tutti e tre autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale. Per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram. Uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente combatté il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», scrisse ne Il potere dei senza potere. Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli.
Il sistema totalitario priva i cittadini della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione. È, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana». La libertà riacquistata nel 1918 è una sorta di emancipazione e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità. È alzarsi e avere anche il diritto di dissentire ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta. Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre mitteleuropee. Hanno svegliato «le coscienze assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia».
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Istituto Liberale Italiano – Blog & Buongiorno Slovacchia)
Una opinione su "Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel"