Un libro dichiaratamente di parte, antipopulista. Non fa finta di non esserlo l’ultimo lavoro di Alessandro Barbano, Le dieci bugie. Buone ragioni per combattere il populismo, presentato a Milano, lunedì 11 marzo alla Mondadori di Piazza Duomo. Al tavolo d’onore, con l’autore, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, il direttore dell’Istituto Bruno Leoni Alberto Mingardi e lo psicanalista Massimo Recalcati. Presenti in sala anche Oscar Giannino, giornalista e Stefano Parisi, politico. Sulla scia del noto aforisma di Winston Churchill («La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate finora») nel risvolto posteriore del libro si legge che «il populismo è il peggio che ci potesse capitare, fatta eccezione per l’antipopulismo». Per prosperare, il populismo deve reggersi sulle bugie e truccare il gioco democratico viene infatti truccato. Le bugie sistematiche sono dirette alla piena cattura del consenso.
Un leader politico mendace si assicura sempre una via di fuga: una promessa non rispettata viene soffocata dal tempo. L’elettore la dimenticherà. Nella retorica populistica c’è sempre un colpevole, responsabile delle disgrazie che affliggono un paese. Il populismo lucra sulle diseguaglianze e raccoglie un grosso dividendo dal malcontento generale. Semina odio nei confronti del multiculturalismo e sparpaglia l’invidia. Nasce dalla crisi del pensiero liberale e progressista. Fontana spiega che «c’è un’attitudine psicologica del populismo» che prevede «un uso dei mezzi di comunicazione di massa, il rapporto diretto tra il leader e i suoi elettori e l’esclusione dei corpi intermedi e delle élite». Alla base dell’idea populista c’è il paradosso della globalizzazione. Quella che ha distribuito la ricchezza, ma che ha creato scompensi in alcuni settori sociali. L’idea populista, continua Fontana, «è quella che dopo aver limitato la globalizzazione e aver ottenuto la piena “sovranità” nazionale tutto si possa risolvere».
E se è vero che peggio del Fascismo c’è solo l’Antifascismo – per citare Pier Paolo Pasolini – la reazione ad un fenomeno come quello del populismo è talvolta anche peggiore del “male originale”. Il più grande errore che possano compiere le élite è credere che l’onda populista «sia soltanto una ventata, una parentesi della Storia» Secondo Fontana è alta la tentazione di dire: «aspettiamo che si facciano male da soli», così come sciocco è pensare che «tutto tornerà come prima». C’è sempre qualcuno di più populista di un populista. Il problema è che sono tanti i campi di battaglia e nelle diverse entità territoriali il populismo ha assunto diverse modalità di espressione. Mingardi le enuncia e denuncia il vocabolo “populismo”, «un’espressione plastica. Un pass partout: da Donald Trump, a Marine Le Pen, dai gilet gialli ai moti che hanno portato a Brexit».
Il populismo nasce spesso dal declino dei partiti tradizionali. I quali «non dovrebbero riconcorrere i populisti», per la semplice ragione che tra la copia e l’originale, l’elettore sceglie l’originale. «Il populismo è un sistema di idee fondato su due idee: il nazionalismo e l’approccio statalista». Da una parte l’idea che il progresso debba essere indirizzato verso il sol dell’avvenire indicato dallo Stato; dall’altra parte lo Stato mecenate, assistenzialista. «L’assistenzialismo populista» precisa Mingardi «non è un qualcosa di umanitario, quanto un assistenzialismo egoista». In sostanza: ti do i soldi non perché voglio portarti fuori dalla povertà, ma perché voglio assicurarmi il tuo voto e la tua fedeltà alle prossime elezioni. Strettamente collegato all’assistenzialismo c’è il concetto di dirittismo, la malattia sociale per cui ad una miriade di diritti non debba corrispondere un’altrettanta massiccia dose di doveri. Al contrario, i diritti diventano pretese, come se fossero dei crediti da vantare.
Nell’ottica del dirittismo, lo Stato stesso è dispensatore di diritti, ma al contempo è ritenuto incapace di garantire la massima felicità ai corpi sociali. Il dirittismo – uno dei bracci armati del populismo – prevede che la presunta mancanza di diritti sia frutto della «colpa degli altri, del capitalismo, dell’immigrato, dello Stato». Recalcati ammira il testo di Barbano. Una «lettura clinico-politico di una grave malattia». Uno dei pochi libri sul populismo che «non viene da sinistra». Il conduttore di “Lessico amoroso” spiega in breve la storia del populismo italiano. «La politica non è il luogo del logos» spiega lo psicanalista, ma della pulsione. «Anche la paura ha una forte pulsione e la politica deve ritrovare il suo fondamento». Secondo Recalcati, «la pulsione deve alimentare il sogno e la possibilità di una rivoluzione», anche perché «se non c’è “pensiero lungo” – citando Enrico Berlinguer – la politica perde visione».
Ne consegue l’inevitabile «riduzione del lessico politico a quello propagandistico». Strumento idoneo per la populistica «crociata anticasta che si sposa con un’estetica pauperista e che al contempo si contrappone ad ogni forma di politica». La parola poi all’autore ed inventore del termine dirittismo. Secondo Barbano «sono tre i sintomi dei populismi italiano che inducono ad una preoccupazione rispetto alla regressione democratica in Italia». Primo di tutti, «la legittimazione del potere solo tramite voto popolare». Il populista non tollera la critica: non ti sei candidato? Non sei stato eletto dal popolo? Non hai il diritto di parola. Il leader ignora il fatto che istituzioni non possono “candidarsi” e che «la democrazia non è solo il voto». «La democrazia è un’architettura complessa e ci sono anche la dimensione del potere tecnocratico e gli strumenti attraverso cui il potere va diviso. Il populismo nega la spaccatura del potere e lo assume», concentrandolo nell’esecutivo.
Dimenticando che l’unico potere eletto dal popolo è il Parlamento. Da una parte il populista si fa difensore del popolo, dall’altra diminuisce il potere dell’unico potere dello Stato eletto dal popolo. Un secondo sintomo di preoccupazione circa la tenuta democratica di un paese è «la fragilità dei poteri di garanzia». Questi, non sono solo il Quirinale o la Corte Costituzionale, ma anche i media. Ad indebolire ulteriormente i corpi intermedi di una democrazia, oltre al dirittismo, secondo Barbano c’è anche la “consensite”. Cioè la ricerca incessante e costante del consenso popolare. Qualunque sia il prezzo da pagare. Il populista ha bisogno di consenso. Deve far leva su dirittismo. E quello che è triste è la generale resa da parte dei giornalisti nel quotidiano storytelling del populismo. Con amarezza Barbano spiega che oramai i giornalisti sono «conduttori di silicio, non mediatori».
Il terzo punto riguarda «la debolezza dell’opposizione», ridotta al lumicino «per l’incapacità di proposta politica dei partiti tradizionali», dove per “partiti tradizionali” vengono paradossalmente inseriti anche Forza Italia – il “partito di plastica” (plastica resistente visto che in gennaio ha compiuto un quarto di secolo) – e il Partito Democratico, già DS, già PDS, già PCI, oggi annacquato nel processo di crisi internazionale delle sinistre. «Il populismo è figlio delle precedenti culture»: non vengono da Marte. I partiti tradizionali sono parte in causa nello sviluppo dei partiti populisti, perché «non hanno capito la potenza della sfida lanciata dai quei movimenti». E non capire il proprio tempo in politica diventa una colpa.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)