Nella Repubblica Socialista Cecoslovacca, nata de facto nel 1948 e rinata de jure nel 1960 con la federazione tra Repubblica Socialista Ceca e Repubblica Socialista Slovacca, Piazza San Venceslao è stato un luogo dove si sono svolti eventi importanti per il paese dell’Europa centrale. È qui che nel 1968 sono nati i primi moti di ribellione studentesce. Sostituito il fedele burocrate comunista Antonín Novotný ai vertici del Partito Comunista Cecoslovacco, il riformista Alexander Dubček tentò una più profonda destalinizzazione del paese. Più diritti ai cittadini, più democrazia a tutti i livelli della società, più decentramento della PA. Nel complesso, un progetto di maggiore libertà individuale, che comunque non eliminava l’influenza del PCC nella vita dei cecoslovacchi.
Contro le ingerenze di Mosca, in molti cittadini risposero attivamente e diedero vita alla Primavera di Praga, poi repressa nel sangue. Gustáv Husák era succeduto a Dubček e aveva avviato la cosiddetta normalizzazione. Tutto sembrava perduto: addio a diritti umani e libertà politiche. Ma qualcuno non ci stette: serviva ben altro per piegare la volontà del singolo, dell’individuo, dell’unico. Jan Palach era uno studente nato nel 1948. Vent’anni dopo si era iscritto a Storia e Economia Politica all’Università Carlo di Praga. Il 16 gennaio 1969 entrò per sempre nella Storia. Il suo nome venne incastonato ufficialmente fra quelli dei grandi difensori della libertà. In Piazza San Venceslao, decise decise di darsi fuoco per protesta nei confronti del regime sovietico.
Il giovane voleva l’abolizione della censura e le dimissioni dei gerarchi comunisti. Per uno studente che sognava la libertà, l’occupazione bolscevica non era tollerabile. La coppia di benzina e fuoco aveva risparmiato il viso del giovane Palach. A soccorrerlo sul posto, un tramviere che si tolse il cappotto per coprire le ustioni sulla carne bruciata dello studente. In una trasmissione su Radio Praga nel 2003, Jaroslava Moserová – ambasciatrice, politica e senatrice ceca, nonché prima dottoressa che curò Palach – ha ricordato gli eventi di quel gelido inverno di mezzo secolo fa. «Ero una di quelle che prestò il primo aiuto, curando le zone bruciate. Naturalmente non dimenticherò mai quell’esperienza e neppure i giorni che seguirono. Eravamo molto scontenti: lui si era sacrificato per la nazione».
Continua Moserová: «Una delle infermiere che era con lui disse che continuava a ripetere: “Per favore, dì a tutti perché l’ho fatto. Per favore, dillo a tutti”». Molti, troppi, in Occidente si sono dimenticati del sacrificio di Jan Palach. Sui portachiavi o sulle magliette delle generazioni del tempo, nonché quelle successive, non è finito quel giovane studente che letteralmente ha sacrificato la sua pelle e la sua vita per la libertà. Assassini come Ernesto Che Guevara sono ben più famosi di Jan Palach. E sono considerati grandi liberatori, il che testimonia come in Occidente non si abbia fatto molto per mantenere viva la memoria del giovane studente. Jan Palach è morto il 19 gennaio 1969, tre giorni dopo il suo rogo, cinquant’anni fa. Di anni se ne sarebbero passati ancora molti prima del crollo del regime che lui e pochi altri contestavano dall’interno.
Alcuni coetanei del martire di Praga seguirono poi il suo esempio. Jan Zajíc, in febbraio e Evžen Plocek, in aprile, ispirati come Palach dai monaci buddisti di Saigon, lo seguirono nel tragico gesto. Nella borsa a tracolla a qualche metro dal rogo di Jan Palach, furono rivenute diverse lettere. Una delle quali concludeva con l’autodefinizione che il giovane studente aveva dato a se stesso: “torcia umana numero uno”. Seicentomila persone andarono al suo funerale, nonostante i tentativi di denigrazione e repressione ordinata da Mosca. A cinquant’anni dalla morte di Jan Palach, a trenta dalla caduta del Muro di Berlino, la libertà che il giovane agognava è viva nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Jan Palach non era solo una torcia: era la fiamma della libertà.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)