Prigionia e lettere dal carcere di Václav Havel

Václav Havel usciva di carcere nel settembre 1982, quarant’anni fa. La polizia cecoslovacca iniziò ad arrestare i dissidenti già nel 29 maggio 1979: la persecuzione degli intellettuali fu una delle massime cifre della politica della “normalizzazione” nel Paese. Havel, fondatore di “Charta 77”, fu condannato a quattro anni e mezzo. Con lui, anche altri cinque esponenti della carta dei diritti umani. L’esperienza del carcere cambiò profondamente il futuro statista. «Quando ero in prigione, pensavo costantemente a cosa avrei scritto e come. Ho cercato di ricordare tutte le esperienze curiose e commoventi, sorprendenti e scioccanti, strane e tipiche che ho vissuto lì. Ho pensato a come un giorno avrei descritto le situazioni […] assurde in cui mi sono trovato» (Disturbing the Peace). A consolarlo, le lettere che scriveva alla moglie Olga Šplíchalová. Gliene scrisse 144, tra il 4 giugno 1979 e il 4 settembre 1982 (raccolte in Letters to Olga).

Solo quattro non sono mai state pubblicate. A causa della censura del regime, esse non sono di grande interesse storico. Non sembrano di un dissidente in esilio, quanto di un uomo comune che in carcere narra il suo quotidiano. In carcere gli oggetti per Havel acquisirono una nuova dimensione creativa nella routine giornaliera. Per il dissidente scrivere le lettere dal carcere era la più grande difesa per non perdere la lucidità. Negli scritti destinati all’esterno era proibito inserire parole straniere e usare punti di domanda. Nelle lettere Havel si lamentava di non aver scritto abbastanza. Gli stati di ansia, di paura, di fragilità emergono nei documenti. In carcere, «anche l’umorismo era vietato: la pena è una faccenda seria, dopotutto, e le battute avrebbero minato la gravità, che è uno dei motivi per cui le mie lettere sono così mortalmente serie, senza una traccia di umorismo o ironia» (ibid.).

Nonostante la censura «scrivere quelle lettere ha contribuito a salvare la mia vita e a darle un senso, ma cosa possono fare per gli altri, al di fuori del mondo carcerario? C’è qualcuno che, nella fretta della vita contemporanea […] ha il tempo di farsi strada tra quelle frasi intricate e spinose e di cercarvi un senso?». Havel si chiedeva se quelle lettere fossero filosofia. «Devo ammettere che ammiro chi l’ha letto e l’ha capito tutto; ci sono molti passaggi che oggi non capisco più», disse a proposito di Letters (ibid.). Nelle lettere dal carcere emerge anche l’Havel uomo ed umano. Quello che, in un luogo di limbo tra vita e morte, sceglie la vita per sé e per gli altri. «In prigione dovevo spesso dissuadere i compagni di prigione dal suicidio; lo consideravo un mio dovere» (ibid.).

E ancora: «Una volta ho passato due settimane in “buca” per aver tentato di impedire a qualcuno di uccidersi; il nostro direttore, mezzo matto, mi ha urlato che non dovevo interferire […]. Non sono mai riuscito a condannare i suicidi; tendo invece a rispettarli, […] anche perché i suicidi […] pongono il valore della vita molto in alto: pensano che la vita sia una cosa troppo preziosa per rimediare alla sua svalutazione vivendo inutilmente, in modo vuoto, senza senso, senza amore, senza speranza» (ibid.). Nel carcere Havel si sentiva come Meaursault de Lo straniero di Albert Camus: del tutto fuori contesto dall’ordine organizzato dell’apparato comunista. Come Meaursault, si sentiva condannato per crimini che non aveva commesso. Nelle lettere dal carcere si leggono l’esigenza di rimanere sano, quella di ricostruirsi psicologicamente, scrivere almeno due spettacoli, migliorare l’inglese e imparare il tedesco.

Preoccupato di uscire di galera indifferente ed egoista, Havel tentò di tutto psicologicamente di rimanere se stesso. Nei momenti di cupa disperazione Havel racconta che la mancanza di energie idee sono terribili nell’istituzione carceraria. I libri di Franz Kafka, Samuel Beckett, Harold Pinter, Saul Bellow, gli fecero compagnia. In carcere nacque in lui il desiderio di ascoltare i Pink Floyd. Sviluppò una teoria del tempo. Indifferenza, rassegnazione e pigrizia erano le massime perdite di tempo. Nelle lettere dal carcere Havel si avventurò persino in un percorso dell’“io”. Pregava Olga di dargli risposte precise; di spedirgli pezzi di cioccolato nonché sigarette e tè, dolcetti e calze. Sconfiggere la noia non era facile; lo ammise anche Havel: letture e sonno dimezzavano il tempo. Essere fermi nel tempo e nello spazio, mentre il mondo fuori correva, era deleteria per uno scrittore fantasioso come il futuro statista Havel.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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