Hannah Arendt racconta Adolf Eichmann a Gerusalemme

Nel dicembre di sessant’anni fa a Gerusalemme terminava il processo a Adolf Eichmann, funzionario del Terzo Reich, tra gli ideatori della Soluzione finale. Uno dei capetti nazisti che si erano nascosti in America Latina dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sequestrato nel maggio del 1960 dal Mossad in Argentina, fu protagonista di un processo che fece la Storia. Le memorie più lucide di quegli eventi le ha riportate ne La banalità del male Hannah Arendt. Perché l’Olocausto? Perché gli ebrei? Gli altri dov’erano? Cosa è stato fatto per fermare la macchina della morte? Arendt non trovò risposte a queste domande e rimase scioccata dall’incapacità di Eichmann ad immedesimarsi nel prossimo. Lo descrisse come lo vedeva: un ometto banale. Un ingranaggio neppure troppo sofisticato della grande macchina totalitaria nazista. Un burocrate efficiente e indifferente.

Durante il processo, Adolf Eichmann rimase quasi sempre in silenzio. Parlava solo se interpellato. Era chiaro sin dall’inizio che sarebbe stato ritenuto colpevole, ma il processo andava fatto. «Se egli non fosse stato considerato colpevole in partenza», scrisse Arendt, «gli israeliani non avrebbero mai […] pensato di rapirlo». Eichmann non era un burocrate a caso nell’universo nazista ed era dunque una preda ambita dal governo di Tel Aviv. Il coordinatore di riferimento degli spostamenti di prigionieri dall’Ovest all’Est era un maestro della logistica del terrore; «la cinghia di trasmissione più importante […], perché toccava sempre [a lui] fissare quanti ebrei potevano o dovevano essere deportati da una data zona». Riparato in Austria, Eichmann si spostò con il nome di Otto Eckmann a Genova. Qui s’imbarcò per l’Argentina, dove lavorò per Mercedes-Benz a Buenos Aires.

Il figlio Klaus Eichmann si vantava pubblicamente del passato del padre – e non solo nelle ristrette comunità di esuli nazisti del posto. La voce girò e i servizi israeliani organizzarono un’operazione lampo. Tradotto a Gerusalemme, il funzionario nazista attirò l’attenzione della stampa mondiale. Arendt lo definì bugiardo. «Tipico membro della bassa borghesia» che non era fanatico del Nazionalsocialismo, ma si piegò ai superiori. Rinunciò al libero arbitrio per seguire l’autorità del partito. Al processo, «chiunque poteva vedere che quest’uomo non era un “mostro”, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone». Eichmann «non era stupido; era semplicemente senza idee […] e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali» del suo tempo. Non aveva letto il Mein Kampf ed era entrato nel NSDAP su consiglio di Ernst Kaltenbrunner, capo del RSHA.

«Da una vita monotona e insignificante era piombato di colpo nella “storia”». Un «fallito sia agli occhi del suo ceto e della sua famiglia che agli occhi propri […] poteva ricominciare da zero a far carriera». E nel partito nazista, di strada ne fece parecchia, fino a diventare uno dei big della conferenza di Wannsee del gennaio 1942. Adolf Eichmann «non fu turbato da problemi di coscienza», ma d’altra parte, «disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato […] con grande zelo e cronometrica precisione». Eichmann non fingeva di essere ciò che non era. «L’unica attenuante che invocò era che aveva cercato di “evitare il più possibile inutili brutalità” nell’eseguire il suo lavoro». Disse: «Io non ho mai ucciso né un ebreo né un non ebreo […]; né ho mai dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo».

Lasciò così intendere, scrive Arendt, che «avrebbe ucciso anche suo padre se qualcuno glielo avesse ordinato». Di Adolf Hitler, disse che «avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma […] fu […] capace di […] salire dal grado di caporale […] al rango di Führer […]. Il suo successo bastò […] a dimostrarmi che dovevo sottostargli». A fine processo, Eichmann fece domanda di grazia, che fu respinta. Chiese e ottenne del vino rosso; rifiutò di incontrare il pastore protestante del carcere. Poi l’impiccagione. Fino alla fine restò convinto che pagava per colpe di altri, che lui eseguiva solo gli ordini. «Alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di aver obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge». Nella Germania nazista, legge ed ordine erano menzogne. «Uomini come lui ce n’erano tanti e questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano […] terribilmente normali».

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su AlterThink)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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