Sessant’anni fa moriva Luigi Einaudi, economista, cattolico, liberale, monarchico, anticomunista, secondo presidente della Repubblica Italiana (1948-1955). Intellettuale di prim’ordine, personalità di stampo internazionale, padre costituente e giornalista, è stato anche governatore della Banca d’Italia. Senatore prima, dopo e durante il Fascismo, è stato vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro del bilancio. Ma soprattutto, autore di quelle che lui stesso definiva “prediche inutili” nei confronti del paese che amava. Quell’Italia e che ha servito lealmente tutta la vita. Einaudi è stato un padre inascoltato del liberalismo italiano assieme con Benedetto Croce. Nell’articolo “Il programma economico del partito liberale” (La Stampa, 12 ottobre 1899) spiegò che «in Italia lo Stato è uno dei più efficaci strumenti per comprimere lo slancio dell’iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie». Da economista, studiava i sistemi per rilanciare la produzione tra un secolo e l’altro.
«Se la produzione annuale dell’Italia aumenterà, aumenteranno non solo i profitti gli stessi dei direttori dell’industria dei commerci, ma si accresceranno altresì, per la maggior richiesta, i salari dei lavoratori». Einaudi era attento alle questioni sociali, specialmente negli anni in cui spopola quella che poi sarebbe stata la chiamata la Dottrina Sociale della Chiesa, la risposta clericale al Socialismo contenuta nella Rerum Novarum di Papa Leone XIII. Alberto Giordano ha definito Luigi Einaudi un «un liberista, anti-keynesiano, esaltatore del risparmio privato e nemico del collettivismo». Un esemplare di razza di una dottrina, quella liberale, che in Italia non ha mai avuto la fortuna che ha avuto a correnti alterne nelle altre parti del mondo. Nell’articolo “La bellezza della lotta” (La Rivoluzione Liberale, nr. 40) Einaudi definisce il liberalismo come «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, la elevazione della persona umana».
Per Luigi Einaudi l’individuo è al centro della società e delle sue scelte economiche. Egli ha sempre voluto fare chiarezza su cosa intendesse per liberalismo e lo accomunò necessariamente al liberismo economico – cosa che invece venne rigettata da Croce. E chi è il liberale, dunque? «Colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio con latitudine a lavorare d’accordo con gli altri» (ibid.). L’individuo, secondo Einaudi, agisce in società anche grazie al mercato. Quello che definisce come «un meccanismo meraviglioso, nel quale nulla di più perfetto fu mai posto sarà mai posto a disposizione degli ultimi per soddisfare le proprie esigenze effettive di beni ed i servigi». Si espresse anche sul risparmio e la parsimonia. Ambedue, diceva, sono essenziali per creare un sistema economico florido. Il risparmio rappresenta l’idea stessa il frutto del lavoro e da questo si origina il profitto.
Cioè, quello che Einaudi definisce come «il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare nella conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità» (In lode al profitto). Il profitto è l’espressione della scelta individuale: non è un caso che Einaudi sia considerato il patrono della libera impresa in Italia. Il profitto deriva dall’attività economiche individuali, dal rischio di sperimentare di nuove strade. Da liberale, Einaudi si oppose ai monopoli, che non sono frutto della libera impresa, bensì di una distorsione del mercato. Una lezione che deriva da Adam Smith, implementata anche da Friedrich von Hayek. Ultimo segno che mette Luigi Einaudi nel pantheon dei liberali classici e padre del dimenticato liberalismo italiano.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’universo)