Primo Levi, sommerso e salvato

«Son morto con altri cento / Son morto ch’ero bambino». Cantava così Francesco Guccini nel ricordare lo sterminio ad opera dei nazisti nel brano la canzone “Auschwitz” del 1966. Dal campo di concentramento polacco sono tornati in pochi. Primo Levi ne è stato un sopravvissuto. Tornato in patria, avvertì l’urgente necessità di raccontare gli orrori indelebilmente incisi nella sua memoria e sul suo avambraccio. Vorremmo che lo scrittore torinese fosse nato non cento anni fa – il 31 luglio 1919 –, ma centocinquanta, duecento, anche trecento anni prima. Non solo per non fargli patire gli anni vissuti in campo di concentramento prima – a Fossoli – e di sterminio poi – a Oświęcim –, ma anche per allontanare l’immensa vergogna europea a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta. «Ancora non è contenta / di sangue la belva umana», continua Guccini. Man mano che i nazionalsocialisti perdevano terreno nel 1943, lo sterminio di innocenti procedeva inesorabilmente.

Primo Levi si è salvato. In Se questo è un uomo ringrazia Alberto Dalla Volta, prigioniero con lui, per averlo aiutato a sopravvivere ad Auschwitz. Ne La tregua, ripercorre la sua Odissea fino alla città natale di Torino, in un continente sfigurato dalla guerra. Ne I sommersi e i salvati lo scrittore si chiede “i grandi perché”, cosa che dà ancora più valore alla sua testimonianza, come spiegato nella prefazione di Tzvetan Todorov. Primo Levi non riusciva a darsi pace: incubi ricorrenti gli suggerivano che la memoria è da coltivare minuto dopo minuto. E dimenticare è essere complici. Come si poteva non sapere? Levi non riusciva a darsi risposta. Tentava di scrivere a proposito di colpe collettive, di un’ignoranza voluta. «La storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo», scrive ne I sommersi e i salvati.

«Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione». Però Levi ha parlato: è stato sommerso e si è salvato. Si è salvato anche ricordando, perché «la memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace». I ricordi si modificano col passare degli anni; la realtà diventa un’altra realtà. Levi prova orrore per i vari Adolf Eichmann e Rudolf Höss, ma più pericolosi sono le orde di indifferenti. Lo scrittore parla della zona grigia: quella «che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi». Servi che per comodità e piccolo tornaconto di bottega hanno svenduto la loro dignità e umanità per appoggiare la balorda visione totalitaria. Quella che li solleticava nell’orgoglio e li viziava, innanzandoli arbitrariamente al rango di “razza superiore”.

Quell’omogeneo gregge soggetto alla tetra obbedienza imposta dal più forte: simulacri della banalità del male, citando Hannah Arendt. Primo Levi e pochi altri sono stati sommersi e salvati. Usciti dal campo di sterminio sono rimasti esseri umani. Esseri umani che si vergognavano di essere sopravvissuti. «I “salvati” del Lager non erano i migliori», perché «sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli instabili, i collaboratoti della “zona grigia”, le spie». Levi è stato condannato da quello che lui definiva «l’uomo semplice, abituato a non porsi domande». Colui che «era al riparo dall’inutile tormento di chiedersi perché». L’indifferente di turno che conduce una vita ordinaria nella più totale ignoranza (questa, meno grave dell’indifferenza). Quello che consente alla Storia di ripetersi. «È accaduto, quindi può accadere di nuovo», avverte Levi; «Io chiedo quando sarà / che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare», si chiede Guccini.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

Rispondi