Le furie e le avventure di Guido Piovene

In occasione del ciclo di conferenze “Archivi del Novecento” organizzato da Rete Due e dall’Istituto di Studi Italiani dell’USI, tramite gli intermezzi biografici a cura di Sara Garau, si è tenuta ieri sera nell’Auditorium dell’ateneo di Lugano l’esclusiva proiezione di un’intervista realizzata nel 1963 da Vittorio Sereni al giornalista e scrittore Guido Piovene per la RSI. All’epoca, l’occasione era la discussione tra i due letterati – e fumatori incalliti – sull’ultimo libro del romanziere, Le furie, opera controversa che non aveva ottenuto il premio Viareggio. I membri della giuria di allora – tra cui Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Ungaretti – emisero un verdetto negativo per i trascorsi fascisti dello scrittore, portati dallo stesso all’attenzione del pubblico con La coda di paglia del 1962. Nel filmato, Sereni spiegava quanto quello di Piovene fosse «uno dei pochi libri che potessero “vivere” a livello mondiale».

Mistero e paura, introspezione e ambiguità, disagio e passato, precarietà e fragilità sono alcuni dei temi principali delle opere di Piovene. Molte delle quali – egli dice nell’intervista – «non voglio ricordare. Io dimentico i miei libri del passato. Eccetto uno, Le furie. Un libro che desidero ricordare. Le lettere di una novizia» – il primo romanzo del 1941 – mi sembra che sia stato scritto da un altro […]. Le furie sono una passeggiata nei luoghi della mia infanzia […]. Alcuni personaggi sono veri e sono stati presi dalla realtà […]. Altri sono una proiezione delle mie ossessioni […]. E queste sono le furie». Furie che Eugenio Montale ha chiamato «privatissime» sul Corriere della Sera. Aveva ragione il Nobel degli Ossi di seppia, perché Le furie è un romanzo autobiografico, da intendere e interpretare, seguendo le parole del suo autore, come «un’intervista con me stesso; più lunga, dove ho posto le basi per interviste successive».

«La Via lattea di Luis Buñuel o L’angelo sterminatore hanno come per riscontro letterario Le furie di Guido Piovene», elogia Sereni. Che ricorda il metodo di scrittura dello scrittore vicentino: tutto nasce «dall’elaborazione di determinati spunti che erano dentro di lui». A Piovene Le furie è costato sedici anni di lavoro. Dopo diversi tentativi – e una dedica a Mimy, antagonista del libro e moglie di Piovene – il romanzo di una vita era pronto. Classe 1907, di ascendenza nobile, laurea in filosofia alla Statale di Milano. Con una formazione cattolica e illuministica, Guido Piovene abbracciò da giovane Fascismo e giornalismo. Dal primo si distaccò, ma è spiccando nel secondo ambito che conquistò gli italiani degli anni Cinquanta. Nel 1963 su l’Unità annunciò di votare comunista, mondo dal quale era sempre stato affascinato. Definì il PCI come «l’unico partito che non solo difende la pace, ma la libertà della cultura in Italia».

Il Belpaese lo ha visitato da cima a fondo e ne ha narrato la geografia e i costumi in Viaggio in Italia, volume di oltre novecento pagine sull’Italia degli anni Cinquanta. Ma non c’era solo lo Stivale nella prosa di Guido Piovene. Anche reportage per il Corriere dalla Germania, da Parigi e Londra. Anche dall’Unione Sovietica, là, nelle terre post-staliniane dove pochi occidentali mettevano piede e penna. Nel 1970 il suo Le stelle fredde vinse il premio Strega, l’onore di una vita. Guido Piovene è stato dimenticato: certo, i libri, i romanzi, i saggi, gli articoli, le raccolte. Forse perché troppo complesso o scomodo. Con Indro Montanelli (di cui era amico dagli anni Trenta) e Dino Buzzati condivideva la stanza al Corriere, ma è con il primo che Piovene fondò il Giornale Nuovo, la voce dei liberalconservatori nell’Italia vittima del terrorismo e del conformismo.

«Quando decidemmo di mettere Piovene al corrente della nostra idea di fare un giornale» scrisse Montanelli nell’articolo di addio all’amico sul Giornale il 13 novembre 1974 – «non avevamo nessuna speranza ch’egli vi aderisse […]. Gran signore veneto, aveva la stoffa del gaudente nel senso più squisito e raffinato, settecentesco, della parola. Amava il lusso discreto, i bei quadri, i buoni libri, la buona mensa, la conversazione di qualità. Già da un paio di anni Guido era insidiato da una malattia progressiva, senza speranza di guarigione, che gli divorava lentamente i muscoli, paralizzandoli. Non ne fece mai parola con nessuno […]. «“Arrivati a una certa età […] ci si accorge che una sola cosa conta, e che per quella sola val la pena di vivere e di battersi: la verità” […]. Le sue qualità di artista bastavano ad esentarlo da certe responsabilità. Volle assumerle. E morire, lui che lo aveva sempre evaso, “in servizio”».

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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