Il diario di Anne Frank non è solo uno dei libri più famosi al mondo, ma è anzitutto la rivelazione di un talento e una sensibilità precoce. Il tema principale dell’opera è la speranza che l’autrice non ha mai abbandonato. Il diario è sì un’opera di libertà, ma anche di intimità. Dal 12 agosto 1942 al primo agosto 1944 Anne affidò le sue memorie a “Kitty”, così chiamò il diario – poi rielaborato dal padre Otto Frank, l’unico della famiglia che sopravvisse ai campi di concentramento e che dedicò il resto della sua vita alla memoria della figlia. Il diario nacque come esigenza di trasmettere la propria memoria sino alla fine della guerra. Quando nel 1944 Radio Orange ospitò un intervento del ministro nederlandese dell’eduzione in esilio Gerrit Bolkenstein – che annunciò l’intenzione dopo la guerra di pubblicare l’esperienza dell’occupazione degli olandesi – Anne revisionò il diario.
Che diventò lo specchio dell’anima della ragazza. Anne Frank era arrivata nei Paesi Bassi nel 1934. Sapeva cosa avrebbe voluto fare: la scrittrice: in futuro, avrebbe voluto firmarsi Anne Aulis. «Scrivendo mi libero di qualsiasi cosa, mi passa il malumore, mi solleva il morale! Ma il problema fondamentale è: riuscirò mai a scrivere qualcosa di grande, sarò mai una giornalista e scrittrice? Lo spero, oh, lo spero tanto, perché scrivendo riesco a fissare tutto sulla carta, i pensieri, gli ideali e le fantasie» (aprile 1944). Anne voleva sopravvivere alla barbarie nazista: «Su con la vita, verranno tempi migliori!», annotava il 15 giugno 1943 nel bel mezzo della Shoah. «Splende il sole, il cielo è azzurro intenso, soffia un venticello meraviglioso vorrei tanto … vorrei … tutto … Parlare, essere libera, avere amici, essere sola».
Il 10 maggio 1940 la Germania invase i Paesi Bassi; la comunità ebraica era di 140.000 persone. 102.000 furono assassinati. Il punto di partenza verso i lager ad Oriente era il campo di transizione di Westerbork. A favore dei nazisti giocò la conformazione del territorio: paese piatto, attaccato alla Germania. Il rifugio Anne lo trovò nel diario, iniziato il 12 giugno 1942. «Spero di poterti confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che mi sarai di grande sostegno». La giovane lo riempì con frequenza, pur lasciando degli spazi di qualche giorno tra una riflessione e l’altra. Il diario inizia con la storia della sua famiglia. «Nel 1933 mio padre andò in Olanda. Fu nominato direttore della Opekta olandese, una ditta che produceva marmellate. In settembre mia madre, Edith Frank-Holländer lo seguì».
Con la sorella Margot Frank, Anne raggiunse i genitori. Andò all’asilo Montessori. «Mi piace, questo popolo, mi piace il nostro paese, mi piace la lingua e desidero lavorare qui». La casa presso cui si nascose per due anni ai numeri 263-265 di Prinsengracht – oggi Westermarkt 20 – si può visitare. Si comincia al piano terra, dove si viene accolti da una statua di Maria Andriessen. Il palazzo ospitava l’ufficio del padre. Si entra dai magazzini, poi si sale al primo piano, dove un tempo c’erano gli uffici dei collaboratori di Otto. Poi l’ufficio di Victor Kugler e di Miep Gies, Bep Voskurjl e Johannes Kleimann. Anche loro rischiarono la vita per fare la cosa giusta: proteggere i loro amici. Al secondo piano, la stanza delle spezie. Poi una scatola di latta argentea e biglie di Anne Frank. La celebre libreria, dietro alla quale si giungeva all’alloggio segreto.
Si salgono le scale: in fila indiana. Il libro di Charles Dickens in vetrina apparteneva ad Otto: quello delle preghiere ebraiche alla moglie. Poi la stanza di Anne. Incisi nel muro e protetti dal vetro le misurazioni della crescita di Anne e Margot. Durante i due anni di nascondiglio, la prima crebbe di 13 centimetri, la seconda di 1. Poi ritagli di giornale originali incollati ovunque: l’unica finestra sul mondo. La stanza Anne la condivise con Fritz Pfeffer, morto a Neuegamme il 20 dicembre 1944. È qui che la ragazza scriveva il suo diario, in un tavolino nell’angolo. Poi il gabinetto, che si poteva usare solo in alcuni momenti della giornata. Si sale al secondo piano, dai van Pels, dei quali rimane solo una lista della spesa su foglio grigio. Qui c’era anche il salotto dove le due famiglie si riunivano. Solo il lavandino è originale.
Segue la camera di Peter van Pels, morto a Mauthausen il 10 maggio 1945. Anne si ricordava gli eventi e gli spati degli anni in cui si nascose. La sua famiglia era aperta e i genitori stimolavano le figlie al confronto delle idee. La paura di essere scoperti era sempre presente. «Mi opprime anche più di quanto non possa dire il fatto che non possiamo mai uscire». Una tematica frequente nel diario è il grande affetto che Anne dimostra nei confronti del padre, molto più della madre. «Solo papà riesce a capirne qualche volta capirla». E ancora: «vorrei tanto che papà mi amasse davvero, non solo come figlia, ma come Anne-in-quanto-tale. Mi aggrappo a papà perché […] lui è l’unico per cui valga ancora la pena di provare un senso di attaccamento alla famiglia».
Le note sulla vita famigliare e i rapporti con i genitori segnalano la sensibilità dell’autrice. «Papà apprezza la mamma e le vuole bene, ma non prova l’amore di un matrimonio come lo immagino io. Papà prende la mamma così com’è, si arrabbia spesso, ma dice il meno possibile perché sa quali sacrifici ha dovuto fare la mamma». E ancora: «sono indipendente nel corpo e nello spirito, non ho più bisogno di una madre», sosteneva l’adolescente. Nel diario è anche la routine quotidiana: «Non studio un gran che, fino a settembre mi concedo una vacanza […]. Questa mattina la mamma ha fatto un’altra delle sue terribili prediche. Siamo sempre di più diametralmente opposte». Sul rapporto con la madre: «Oggi ho avuto una cosiddetta “discussione” con la mamma; la cosa seccante è che scoppio subito a piangere, non ci posso fare niente». Non mancano apprezzamenti anche nei confronti di Margot.
«La bontà, la simpatia e l’intelligenza in persona; tutte le imperfezioni che lei non ha, le ho io». Ci è voluta una ragazza di quattordici anni, a dispetto di quello che dicevano che “non sapevano” dei campi di concentramento e della sorte degli ebrei, per ricordare i gironi infernali del lager. A Westerbork, dove transitarono anche Edith Stein e Etty Hillesum, «dev’essere tremendo. Non ti danno quasi niente da mangiare, per non parlare del bere. C’è acqua solo per un’ora al giorno e solo un bagno e un gabinetto per alcune migliaia di persone. Dormono tutti insieme, uomini, donne […]. Quasi impossibile fuggire. […] Se già in Olanda è così grave, come vivranno nelle terre barbariche lontane dove vengono mandati? […] La radio inglese parla di camera a gas, forse la morte più rapida. Sono totalmente sconvolta».
Queste note sono dei primi di ottobre del 1942. La Soluzione finale era iniziata da nove mesi e già si sapeva delle atrocità contro gli ebrei. C’è un altro elemento che indurrebbe ad affermare che Anne Frank fosse una ragazza parecchio matura per la sua età: la gratitudine nei confronti della famiglia. «Dato che sono la beniamina della famiglia ho ricevuto molto più di quello che in realtà mi aspettava». In alcuni passaggi del diario, Anne sembra già conoscere il suo destino. Ma non dispera: «Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene». La speranza, ancora: «Nel frattempo, devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare».
Amsterdam e le altre maggiori città dei Paesi Bassi iniziarono a svuotarsi. «Ci sono bambini che tornando la scuola non vedono più i genitori, donne che fanno la spesa e, quando tornano, trovano la casa sigillata e la famiglia scomparsa […]. E noi stiamo bene, sì, meglio di milioni di altre persone». Il diario è anche un’avventura nella psiche della giovane e della sua trasformazione mentale e fisica. «So quello che voglio, ho uno scopo, un’opinione, una fede e un amore. Lasciatemi essere me stessa, e sarò contenta. So di essere donna, una donna con una forza interiore e tanto coraggio!» (aprile 1944). Uno degli elementi comuni con il diario di Hillesum è la presenza di Dio. «Dio non ha mai abbandonato il nostro popolo; nei secoli ci sono sempre stati ebrei, e hanno dovuto soffrire, ma nel frattempo sono anche diventate più forti».
L’identità ebraica è qualcosa che faceva parte di Anne, che forse peccava di ottimismo: «spero solo una cosa: che quest’odio nei confronti degli ebrei sia di carattere passeggero». Il 4 agosto 1944 alle 11 del mattino al rifugio segreto arrivò il capo reparto delle SS Karl Josef Silberbauer. L’11 settembre i Frank furono condotti ad Amersfoort, dunque a Westerbork. Dopo tre giorni, arrivarono ad Auschwitz. Margot e Anne presero la scabbia e vennero trasferte al blocco degli scabbiosi. Il 2 novembre giunse il telegramma di Heinrich Himmler: sopprimere le camere a gas ad Auschwitz e cancellare le tracce del genocidio. Hermann van Pels, padre di Peter, morì nell’ottobre 1944, mentre Edith morì ad Auschwitz il 6 gennaio 1945. Con l’arrivo dei sovietici, Margot e Anne vennero trasferire a Bergen-Belsen. Qui, nell’inverno 1944-1945 scoppiò un’epidemia di tifo. Entrambe morirono tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1945.
Il campo fu liberato dalle truppe inglesi il 12 aprile. Una lapide commemora le due sorelle, sepolte probabilmente nelle fosse comuni. Al termine della visita della casa di Amsterdam, sono esposte alcune pagine del diario, poi pubblicato con il titolo L’alloggio segreto nel 1947. Tra le ultime annotazioni di Anne, ne marzo 1944, le riflessioni sull’amore. Senza speranza non c’è amore; e senza amore non c’è speranza. «Penso che l’amore sia qualcosa che in realtà non si può descrivere parole. Amare una persona significa capirla, volerle bene, dividere le gioie e i dispiaceri». Per Anne Frank, la ricerca della libertà era subordinata ad un costante stato di speranza e di gioia. E dalla speranza che si giunge alla felicità. «Chi è felice, renderà felice gli altri, chi ha coraggio e fiducia non dovrà mai sprofondare nella misera».
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su AlterThink)