Giovannino Guareschi è stato lo scrittore italiano più apprezzato, letto e tradotto al mondo. Eppure, oggi è quasi dimenticato. Amato forse più all’estero che in patria. Poco conosciuto, ricorda Alessandro Gnocchi (Giovannino Guareschi. Una storia italiana), ma un uomo coraggioso; «schifato dalle belle penne della cultura salottiera»; «radicale nella sua capacità di indicare il senso di una vita. Prepotente. Dolce». Guareschi era i suoi personaggi e i suoi personaggi erano Guareschi. Per comprenderli, occorre visitare la Bassa, o l’alta Emilia, sul Po. Quella «piatta striscia di terra grassa, distesa lungo l’arrivo destra del Po, fra Piacenza e Guastalla», la situa l’autore. «A Busseto Guareschi è tutto: il re per i monarchici, il Papa per i preti e Stalin per i comunisti», ha scritto Indro Montanelli (I rapaci in cortile). Guareschi ha sempre amato la scrittura e iniziò a collaborare da giovane con le testate locali.
I primi lavori uscirono su La Voce di Parma: soprattutto cronache e racconti. Guareschi firmava anche sotto lo pseudonimo di Michelaccio. Fu poi chiamato a collaborare a La Fiamma. Nel 1930 illustrava i racconti di Cesare Zavattini con lo pseudonimo di Petronio, su Il Tevere. Passò alla Gazzetta di Parma, giornale frequentato dagli amici di Gontrado Molossi, tra cui Attilio Bertolucci e Egisto Corradi. Passò poi a Il Selvaggio di Mino Maccari. «Io giravo ogni giorno per caserme dei carabinieri, commissariati di polizia, posti di pronto soccorso, col bel risultato di scoprire che una massaia si era scalfita un dito sbucciando patate […] che un ladro di polli era stato catturato» (Oggi, 1967). Passò a Cinema Illustrazione e Il secolo illustrato. Si trasferì a Milano, «una straordinaria città ed è l’unica veramente viva delle città italiane perché l’elemento dominante è l’uomo».
Il direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli lo notò e lo fece scrivere per l’edizione del pomeriggio – rubriche, reportage, racconti. Nel 1941 fu inviato in un servizio che prevedeva un ciclistico di milleduecento chilometri, tra Parma, Bologna, Cesena Ferrara e Verona. Ne uscì “Un giretto in bicicletta”. Il 1941 è anche l’anno in cui Giovannino Guareschi esordì come scrittore, con Il destino si chiama Clotilde. L’8 settembre poteva decidere se collaborare con la Germania nazista o prendere la via del lager per via della fedeltà al Re. Scelse la seconda. A trentacinque anni finì nell’arcipelago dei lager tedeschi. Guareschi fu uno dei maggiori rappresentanti della Resistenza bianca. Il 27 settembre 1943, a Czestochowa, vide la Madonna Nera. «Non muoio neanche se mi ammazzano», ripeteva tra sé e sé nel lager. Durante la prigionia scrisse il Diario clandestino; definì la “sua” baracca un’Arca di Noè.
«Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti». E poi «Ognuno si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si ritrovò solo con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà». Passò dunque a Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf. Tornò a casa con due blocchi di appunti sui giorni da deportato. «La tentazione più grande nel campo di concentramento era la spinta a isolarsi. L’uomo veniva avviato sulla strada dell’egoismo e quasi costretto a vomitare il peggio di sé. Dilazione, menefreghismo, opportunismo, cattiveria». Eppure, l’autore ritornò dal lager senza odiare nessuno. Il 3 ottobre 1945 ricevette una lettera da Angelo Rizzoli che lo convocò a Milano per fondare il Candido – tra i suoi lettori c’era anche Papa Giovanni XXIII.
Qui Guareschi fece memorabili battaglie e parlò dei trinariciuti, ovvero i funzionari di partito con una terza narice per far uscire il cervello e entrare le direttive del partito. Al tempo era riferito principalmente ai comunisti. Oggi è riferito alle persone che rinunciano al ragionamento. I comunisti si sentirono offesi tanto che intervenne anche Palmiro Togliatti. Il Candido venne subito bollato come uno stupido giornaletto reazionario. Sul Candido Guareschi portò avanti la causa monarchica. Al momento delle elezioni del 1948 pubblicò una delle sue più famose vignette. «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!». I comunisti capirono che Guareschi era un nemico e intensificarono gli attacchi contro di lui. Il giornalista aveva contribuito alla vittoria della DC a 12,7 milioni di voti contro gli 8,1 del Fronte. Sempre in quell’anno pubblicò anche Lo Zibaldino, ma soprattutto Don Camillo, che divenne un film con Fernandel e Gino Cervi.
In seguito, Guareschi non riconfermò il voto alla DC; arrivò a definire Alcide De Gasperi – che un tempo stimava – «un uomo pericoloso per l’Italia». Non vedeva più nello statista trentino il leader del Dopoguerra, ma il funzionario di partito che cercava di sopravvivere politicamente. L’affaire De Gasperi vide la condanna del direttore del Candido. Al Corriere Lombardo De Gasperi disse: «Sono stato anch’io in galera ci può andare anche Guareschi. E le assicuro che le carceri dello Stato democratico sono migliori che nei periodi di dittatura». Guareschi, tuttavia, fece notare che mentre di De Gasperi aveva chiesto la grazia sotto il Duce, egli non avrebbe mai fatto altrettanto con la Presidenza della Repubblica. Giovannino Guareschi non rinunciava alle sue idee e battaglie. Si presentò al carcere di San Francesco a Parma con lo zaino che gli aveva preparato la moglie.
Rifiutò la grazia, che definì un privilegio che le persone oneste non possono permettersi. Quando De Gasperi morì, per l’emiliano la polemica si era estinta. «Mi ha invece rattristato la morte improvvisa di quel poveretto. Io, alla mia uscita, avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo lasciato: ma inchiniamoci ai decreti del Padreterno». Ricevette il Bancarella per Don Camillo e il suo gregge e iniziò a frequentare nel 1956 il piccolo paesino di Cademario, nel Malcantone. Da lassù scriveva i pezzi per il Candido, Oggi, il Borghese e La Notte. Il compagno Don Camillo e Don Camillo e Don Chichì nacquero tra le montagne ticinesi. Nell’ottobre 1961 si dimise dalla direzione del Candido, poi soppresso dall’editore Andrea Rizzoli. Ma Guareschi continuò a scrivere altrove. Per lui la libertà non aveva prezzo. Morì nella il 22 luglio 1968: sulla bara, il drappo con lo stemma sabaudo.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)