La campagna di Grecia guidata dall’Italia fascista fu un fallimento sin da principio. Com’era possibile, si chiedeva Adolf Hitler, che l’invasione di un paesino al Sud dei Balcani necessitasse di così tanto tempo e sforzi bellici? D’altronde, quella nazista era stata un’escalation impressionante in Europa: gli stati europei erano crollati uno dopo l’altro sotto la Wehrmacht e la Luftwaffe. Dall’Austria (operazione Otto) alla Boemia e Moravia (caso Verde), poi la Polonia (caso Bianco), dunque l’inizio della guerra. In primavera Danimarca e Norvegia (operazione Weserübung), poi il BeNeLux (caso Giallo). Dopo il crollo di Parigi, a Roma, Benito Mussolini era rimasto impressionato dalla potenza teutonica. Entrato in guerra nel giugno 1940, non attendeva altro che spartirsi il bottino territoriale conquistato dal socio del Nord. L’invasione di Grecia del 28 ottobre 1940 voleva essere una dimostrazione del valore dell’Italia agli occhi dell’alleato e del mondo.
Per l’occasione, il Duce aveva un asso nella manica. Rassicurò i generali in merito all’invasione balcanica, dal momento che gli ufficiali greci sarebbero stati pagati per non combattere e non resistere all’ingresso degli italiani nel paese sull’Egeo. Tuttavia, Mussolini era stato informato male. I militari greci non erano stati corrotti e quando si arrivò alla resa dei conti in territorio ellenico essi mostrarono resistenza. Il mare tempestoso non aiutò la flotta italica. Il Duce si era messo in testa di voler diventare signore del Mediterraneo, ma presto dovette fare i conti con la realtà. Fu l’intervento tedesco al fianco dell’Italia ad essere decisivo nella campagna di Grecia. Il salvataggio degli italiani dal pantano ellenico obbligò Berlino ad aprire un nuovo fronte nel Reich. Un fronte non strategico e fastidioso che avrebbe tolto ai nazisti diverse risorse per l’operazione Seelöwe contro l’Inghilterra.
Visti i successi hitleriani, Mussolini si sentì sorpassato dall’apprendista nazista. Come un fratello maggiore, intendeva dimostrare alla comunità internazionale quanto l’Italia valesse. E quando si aprì la possibilità di aggiungere un lembo di terra all’italico impero, il Duce megalomane non esitò. Quella di Grecia fu una sorta di vittoria di Pirro. La campagna era stata preparata male e costò molto in termini di tempo, risorse e vite umane. Le precedenti operazioni in Libia ed Etiopia avevano fatto schizzare il debito pubblico del Regno, ma avevano consentito al Duce di incrementare la sua popolarità. Il che non accadde con la campagna di Grecia. «Il signor Mussolini può anche essere un eccellente politico e un buon capo di governo, ma non riuscirà mai a trasformare gli italiani in buoni soldati e l’Italia in un alleato leale», aveva sentenziato anni prima il Presidente tedesco Paul von Hindenburg.
Tuttavia, l’esercito italiano venne umiliato in Grecia, la cui invasione era stata sconsigliata da molti fedelissimi del Duce. Mussolini s’immaginava una gloriosa entrata ad Atene. Una sorta di revisione della Storia, con i latini che sottomettevano i greci. C’è un episodio significativo che la dice lunga rispetto alla megalomania fascista e il disprezzo del Duce per i suoi «combattenti di terra e di mare». Quando l’offensiva greca entrò in stallo, Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, si recò a Palazzo Venezia. Era il 23 dicembre 1940; stando ai diari del Conte, il Duce era irritato dalle cattive notizie dal fronte. «Nevica», scrisse Ciano. «Il Duce guarda fuori dalla finestra ed è contento che nevichi. “Questa neve e questo freddo vanno benissimo”, dice, “così muoiono le mezze cartucce: e si migliora questa mediocre razza italiana”».
L’invasione di Grecia terminò 23 aprile del 1941, ma fu dimostrazione di quanto impreparato, incompetente e tracotante fosse la classe dirigente fascista. Mussolini disprezzava il suo popolo. Mandare al fronte migliaia di soldati senza strategia, ma con gonfia supponenza, fu un atto sconsiderato, dettato dal puro appagamento del proprio ego ed istinto nazionalista. Vanaglorioso e pomposo, Mussolini aveva bisogno di prove tangibili che lo rassicurassero del fatto che, da maestro, non era stato superato dal suo apprendista-imitatore nazionalsocialista nel tentativo di ricreare un nuovo impero in Europa. Tutta la retorica sull’antica Roma e la superiorità latina era servita per galvanizzare il popolino che adulò Mussolini fino alla disfatta finale nel 1945. Ma le avvisaglie di un collasso dovuto a debolezze e contraddizioni interne al regime erano già emerse già dalla campagna di Grecia.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’universo)