L’inevitabile Seconda Guerra Fredda tra USA e Cina

La Seconda Guerra Fredda è iniziata da diversi anni, ma sembra che nel suo complesso l’Occidente non se ne sia accorto. «Nessuno di noi è attrezzato per affrontare questa tempesta in arrivo. Neppure i leader […] hanno un’idea chiara sulla dinamica della sfida». Esordisce così Federico Rampini nel suo La seconda guerra fredda (Mondadori 2019) mettendo da principio in rilevanza il nuovo G2: Stati Uniti e Cina, guerrieri di una battaglia, commerciale e non solo, che cambierà il volto del pianeta negli anni a venire, nonché gli interessi e le alleanze di molti attori geopolitici. Innanzitutto, la Cina. Il capitalismo di Stato ha consentito a Pechino di scansare parzialmente la recente crisi economica. Ne deriva che mentre gli altri paesi crollavano, il Dragone emergeva nel silenzio quasi assoluto. E, con la scusa di salvare paesi indigenti, ne comprava il consenso tramite ingenti investimenti.

Il modello (sui generis) nazional-autoritario è la cifra massima del regime di Xi Jinping, il cui stile semi-assolutista non si vedeva dai tempi di Mao Zedong. Il sistema capitalista cinese è dirigista: altro che laissez-faire. L’approccio di Pechino è top-down in tutti i campi della “vita socioeconomica” del paese, il contrario del modello americano o occidentale più in generale. Lo Stato detta l’agenda economica, tra priorità e investimenti. Un esempio è l’attenzione riservata alle generazioni future. Molti studenti cinesi nelle università americane non sono per nulla inclini a riportare in Cina il clima di libertà e tolleranza di cui hanno goduto in Occidente. Questo è certamente frutto di direttive del sistema piramidale del Dragone. C’è sempre più coscienza della paura che Pechino esercita sull’Occidente. Il “Progetto Made in China 2025” spaventa la fragile alleanza atlantica.

«L’URSS non è mai stata un serio rivale economico e tecnologico dell’Occidente; la Cina per molti aspetti ci ha già superati». Pechino continua la sua silenziosa corsa agli armamenti, cosa che galvanizza e fortifica il popolo cinese. Secondo Rampini, Xi – non sottoposto a quei “fastidi” che in democrazia si chiamano elezioni – ha in mente progetti di emancipazione importanti della Cina nel mondo. A Pechino serve sempre di meno omologarsi all’Occidente come in passato. In Cina Alibaba, Baidu e Tencent dominano; Amazon è in ritirata, Twitter, Facebook, Instagram e WhatsApp sono vietati. Il Dragone è sempre più indipendente: non si riconosce più nel suo essere fabbrica del mondo. Dieci anni fa «fece notizia l’inaugurazione del primo Apple Store, i giovani della borghesia facevano la fila per entrarci. Oggi gli iPhone Apple sono scivolati al quinto posto tra le marche più vendute».

Va da sé che la Guerra Fredda Washington-Pechino si giochi nel campo della tecnologia. Biomedicina, biometria e genetica così come in quello della sicurezza, che in Cina si mischia alla censura e al controllo forsennato delle attività dei cittadini. Secondo Rampini, la crisi del 2008-2009 è stata istruttiva per Xi. Il quale avrebbe ricevuto conferma che «il sistema autoritario è più efficiente della liberaldemocrazia nel governare economia e società». In tal senso, le tecnologie e i sistemi di controllo aiutano potenziali sterzate più autoritarie del chairman del PCC. Importanti, nel ramo tecnologico, sono i ruoli dell’Internet of Things (IoT), dell’Artificial Intelligence (AI), dunque dell’accaparramento delle terre rare. La supremazia nel campo tecnologico è essenziale nella Seconda Guerra Fredda, dove «le tecnologie per usi civili e militari si mescolano e si confondono, [mentre] i confini tra il business e la sicurezza, o lo spionaggio, sono sempre più ambigui».

Il regime cinese sorveglia tutto orwellianamente: il sistema del credito sociale (che emette una “pagella cittadina”) è diabolico; «il Grande Fratello cinese calpesta impunemente i diritti umani». La guerra commerciale Stati Uniti-Cina è giocata sullo sfondo tecnologico. Il caso Huawei insegna: il controllo del flusso Internet sembra avere Pechino come primo sponsor; gli investimenti del Dragone in questo campo, riferisce Rampini, hanno già superato quelli americani di oltre ventiquattro miliardi. Inoltre, per anni Huawei «ha usato società-ombra e nomi diversi […] per confondere le acque sui legami tra le sue filiali estere e la casa madre». Nelle sue relazioni economiche con gli altri paesi la Cina deve avere buoni rapporti con tutti. Non le interessano le preferenze ideologiche del partner commerciali. Un merito della corrente amministrazione statunitense è stato se non altro quello di avere costretto il mondo intero guardare al gigante asiatico. Per troppo tempo ignorato da Washington in primis.

«L’America e l’Europa sono state pericolosamente distratte, per molti anni», in particolare modo dalle guerre in Medioriente. La debolezza principale della strategia trumpiana, lasciando da parte le ripercussioni dei dazi nel lungo termine (per inciso, li pagano i consumatori americani), è che Washington non è stata in grado di costruire una sorta di coalizione omogenea contro Pechino. «L’Occidente vive una profonda crisi d’identità, una caduta di autostima. Le liberaldemocrazie hanno perso la fiducia di ampi strati della popolazione». Inoltre, nel passato recente, «gli squilibri della bilancia commerciale, o lo smantellamento della classe operaia americana, non preoccupavano né i capitalisti della Silicon Valley né i banchieri di Wall Street». Si sommino pure impoverimento delle classi meno abbienti, infrastrutture inadeguate, troppi lavori part-time.

Rampini smentisce poi un falso mito che si sente spesso quando si parla di relazioni USA-Cina. Ovvero, la leggenda per cui i cinesi posseggano la gran parte del debito americano e minaccino di mandare Washington in bancarotta qualora decidessero di non acquistarne più i buoni del tesoro. I cui primi detentori di bot USA sono, nell’ordine, gli americani, la FED, il Giappone e “solo” al quarto posto la Cina. Il debito statunitense è ad oltre ventiduemila miliardi (dati precrisi da Covid-19), il che vuol dire che il Dragone ne ha poco più del cinque, scrive Rampini. «L’idea che l’America dipenda da un solo creditore è pura fantasia». Il secolo a stelle e strisce si è concluso da tempo, ma è presto per dire che quello corrente sarà il secolo cinese. La Cina è potente, ma ha debolezze strutturali che potrebbero inclinarne il dominio.

La cui società è per altro molto omogenea: diseguaglianze, miliardi e colossi industriali nelle mani di pochi. Sono gli oligopoli che decidono le sorti del mercato e a loro volta sono influenzati dal Partito Comunista, al cui interno comandano i clan; corrotti, certo, ma efficienti rispetto ai colleghi dell’URSS degli anni Settanta. D’altra parte, i burocrati sovietici non erano preoccupati dai problemi ambientali che ha oggi la Cina. Il Dragone non ha abbastanza acqua per estrarre lo shale gas e soffre di desertificazione e inquinamento in diverse aree del paese. L’Europa, come da vent’anni a questa parte, sta al centro della Seconda Guerra Fredda. Senza avere la rilevanza che aveva nella prima, il Vecchio Continente è il terreno di scontro USA-Cina, in quanto sede del know how e destinatario di corposi investimenti cinesi.

Il territorio europeo è oggetto d’interesse di Pechino, facilitato nella sua penetrazione del continente a suon di bigliettoni e dalla scarsa lungimiranza di molti leader occidentali. «Un pezzo delle nostre classi dirigenti è rimasto fermo a un’idea antiquata della Cina, come di una potenza emergente». La Cina guarda al futuro, alla prossima generazione, mentre «un politico occidentale che proponesse ai suoi elettori progetti trentennali verrebbe preso per un esaltato». D’altra parte, l’Europa deve decidere da che parte stare: altrimenti la via del tramonto (già imboccata, per altro) subirà una notevole accelerazione. «Nella Lunga Marcia che ha in mente Xi, la capacità di sofferenza dei cinesi è un ingrediente della vittoria finale. L’altro ingrediente è la divisione degli occidentali». L’Occidente deve stare unito: solo così potrà non morire cinese. O quanto meno, morirà dopo aver combattuto.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su La Voce di New York)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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