Nicolae Ceaușescu: lusso e ipocrisia dell’ultimo tiranno dell’Est

Al “tribunale” militare eccezionale non provava alcun rimorso per decenni di feroce dittatura. Non si sentiva colpevole di nulla e non avrebbe mai risposto ad un’autorità che non riconosceva. Sul calare del dicembre di trent’anni fa, Nicolae Ceaușescu e la moglie Elena Petrescu avevano fatto il più grande regalo di Natale al popolo rumeno: la libertà. Il dittatore dei Carpazi era molto invecchiato: il logorio del tempo non aveva risparmiato neanche l’onnipotente della Valacchia. Il tiranno chiese a Mosca un intervento per placare le proteste di fine 1989. Ma la dottrina Breznev, che prevedeva normalizzazioni negli stati satelliti alle prese con disordini interni, era fuori tempo massimo dopo la caduta del Muro di Berlino. Nicolae Ceaușescu era il più brutale di tutti i dittatori comunisti dell’Europa centrorientale. Una sorta di sultano comunista, un caudillo latino-americano sul Mar Nero.

Ed era anche il più ipocrita tra i grigi boss del Patto di Versavia. Mentre il suo popolo si alzava anche alle quattro del mattino per andare in fila a ricevere il pane, dittatore e consorte vivevano in regge principesche. Autentiche Versailles dell’Est, d’altronde, Bucarest è soprannominata Parigi dell’Est. Tenute barocche, neoclassiche, pacchianissime; simboli del lusso più sfrenato voluto e goduto dai Ceaușescu. Si diceva addirittura che il dittatore indossasse ogni giorno vestiti nuovi di zecca che, in serata, venivano bruciati. Quando poi, in seguito alla rivoluzione rumena, le ville furono aperte al pubblico, i giornali di tutto il mondo pubblicarono le foto dei rubinetti d’oro. I palazzi, come d’altronde gli stessi coniugi Ceaușescu, erano ben lontani dal popolo che dicevano di servire e rappresentare. La ricchezza dei Ceaușescu non finiva in Romania, quanto in Svizzera.

Qui, in segreti caveau blindati da acciaio e segreto bancario, Nicolae Ceaușescu nascondeva circa un miliardo di, che ironia, dollari americani. Il “Genio dei Carpazi” era ben più ricco di molti manager statunitensi. Figlio di padre ubriacone e autoritario, a undici anni Nicolae si recò a Bucarest come apprendista calzolaio. Abbracciato in fretta il Comunismo, nel 1956 era già alle vette del PCR. Come molti sui colleghi-dittatori del passato, anche lui non aveva voglia di lavorare. Arrivato al potere nel 1967, con un acuto sistema di autopromozione, non fece mai mistero del suo disegno per il domani del suo paese: la Romania era cosa sua. A cavallo tra il secondo e il terzo mondo, il paese abbracciò in toto il Socialismo reale. Il che non stonava con il culto della personalità del Genio: libri, rappresentazioni teatrali, canzoni, ballate, tutte in suo onore.

Quanto alla moglie Elena, figlia anche lei di umili contadini, questa si ritagliò via via un ruolo sempre più centrale a fianco del marito. Onori, lauree, diplomi alla madre di tutti i rumeni: lei che non aveva mai studiato o quasi. Ne venne spogliata miseramente dal tribunale improvvisato dai militari che li avevano catturati nella rocambolesca fuga da Bucarest il 22 dicembre 1989. I Ceaușescu pensavano ancora di farla franca: tentarono di scappare dalla capitale in rivolta in elicottero, mezzo notoriamente proletario. Ma il velivolo stentava a partire dai tetti degli alti palazzi di Bucarest. Riempito all’inverosimile dall’opulente dirigenza e dai dignitari imperial-burocratici del PCR, dovette atterrare a quarantacinque miglia dalla sede governativa. La fuga dei due coniugi si sarebbe conclusa di lì a poco. Quella volta, non avrebbero potuto nascondersi in uno dei loro quaranta castelli nel paese.

Nelle riprese della farsa processuale in una caserma sperduta che tutto il mondo ha visto per televisione, era proprio Nicolae Ceaușescu il protagonista. Elena, con cappotto e fazzoletto in testa (quasi un ritorno alle origini modeste da cui veniva), era alla sua destra, seduta all’angolo della stanza. In un vicolo cieco. Il tiranno si rifiutò di riconoscere i capi d’accusa enunciati dai militari. Primo di tutti, genocidio (i fatti di Timișoara erano solo gli ultimi morti che il regime aveva fatto in oltre vent’anni di dittatura) e appropriazione indebita (emersero in fretta i miliardi nascosti di cui sopra). E Nicolae, ancora una volta, non ci stava: protestò, agitò i pugni. Disse con voce rauca di non riconoscere il plotone che sommariamente voleva tagliare con l’accetta la sua gloriosa tirannide. L’“Eroe dei Carpazi” capì che la fine era vicina: zittì addirittura anche la moglie, che inveiva contro gli ufficiali.

Poi il processo farsa finì: finì come finì il regime; nel sangue. I Ceaușescu vennero condannati a morte. Il fatto che non ci sia stato un vero e proprio processo rimane un grave vulnus della recente Storia europea. Per altri crimini, in altri contesti, figure come Slobodan Milošević, Saddam Hussein e Adolf Eichmann, se non altro, un processo l’hanno avuto. I cecchini erano pronti, nel cortile della caserma. Poi gli spari sui monarchi. Una liberazione simbolica, visto che poi il volto di Nicolae – preservato dal fuoco delle mitragliatrici – venne ripreso dalle telecamere della tv che fino a qualche giorno prima lo aveva venerato. Quello romeno, fu l’unico regime comunista dell’Europa centrorientale che cadde violentemente: e per giunta, il giorno dell’esecuzione, era anche il giorno di Natale.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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