Prosperità non è sinonimo di Socialismo. La pensava così Luigi Einaudi, da sempre oppositore alla dottrina che, da destra e sinistra, pone lo Stato al di sopra del cittadino. Un Socialismo, almeno quello occidentale, all’acqua di rose; che prevede un welfare invasivo, il desiderio di rendere tutti uguali e uno Stato molto presente in economia. Per Einaudi il Socialismo «non è altro che quella forma di organizzazione economica della società per cui l’iniziativa il rischio della produzione aspetta, invece che ad imprenditori singoli, alla “collettività”» (Corriere della Sera, 28 luglio 1919). Il Socialismo propugna l’importanza e l’esigenza di articolare la società secondo il piano, impedendo agli individui di dare adito alle proprie preferenze.
Il Socialismo ricorre allo statalismo come promotore di benessere collettivo. In ottica socialista, è lo Stato che si fa garante delle esigenze dei cittadini. Einaudi spiegò che i socialisti in tutta Europa avevano il programma «reazionario di distruggere le conquiste di secoli di sforzi compiuti contro la tirannide dei governi assoluti, delle corporazioni medioevali, dei privilegi delle comunità di classe» (CdS, 29 marzo 1911). In quest’ottica il Socialismo è elitario, discriminatorio, antimeritocratico. Elitario perché eleva i membri di una organizzazione, il partito, ad esseri dominanti nella società, schiacciando i singoli. Discriminatorio, perché chiunque non sposi la dottrina socialista è un “nemico del popolo”. Antimeritocratico perché la dottrina stessa del Socialismo prescinde dalle capacità individuali e preferisce distribuire le risorse indiscriminatamente. Soprattutto, è basato sul conflitto e l’odio di classe. E questi due elementi non sono produttivi per costruire una società florida.
«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori degli operai è nocivo la produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo o espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio il salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale» (“La bellezza della lotta”, La Rivoluzione Liberale, nr. 40). La lotta tra imprenditore e lavoratore è antieconomica e alla lunga danneggia «soprattutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno». Ecco perché il Socialismo era visto, soprattutto dopo la rivoluzione bolscevica e la Prima Guerra Mondiale, come elemento di destabilizzazione e decrescita. Non stupì dunque che i movimenti conservatori preferissero salvaguardare i loro business votando per la demagogia social-statalista di destra in antitesi al Socialismo.
Il Socialismo metteva il sale nelle ferite aperte tra imprenditori e operai nell’epoca moderna: aizzava gli uni contri gli altri. Per Einaudi, il socialista «è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza […], che non sa vincere senza privilegi a favore proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi» (ibid.). Socialismo è confiscare i privilegi legittimi conquistati da alcuni, per ridistribuirli arbitrariamente a soggetti designati da una associazione politica. E soprattutto, ridistribuire secondo dei criteri politici e clientelari. Oggi, come agli inizi del Novecento, chi si appella al Socialismo non è impegnato nella lotta per i diritti individuali, quanto per accumulare potere personale. La dimostrazione è quello che è successo in tutti i paesi dove si è applicato il Socialismo. Degradazione dei diritti umani e delle libertà da una parte e arricchimento personale sotto l’idea del Socialismo dall’altra.
Nel suo “Il programma economico del partito liberale” (La Stampa, 12 ottobre 1899), Einaudi aveva già ipotizzato che «quando la gente minuta starà bene cesseranno le lagnanze, ed i partiti socialisti più non potranno far credere al popolo che la salute stia nel regolamentare ogni cosa, nel far intervenire lo stato in ogni minimo atto della vita privata». Oggi come allora, «il meraviglioso progresso nelle condizioni di vita delle classi operaie che si vide nel secolo XIX fu il frutto, in primo luogo, dei progressi dell’industria, dello spirito di intrapresa, della libertà delle iniziative individuali, che i socialisti tentano di distruggere con la loro azione specifica. Sono i principi liberali, sono le maniere di agire di lavorare della borghesia le ragioni prime vere del risveglio economico e dell’elevarsi di tutte le classi sociali e […] della classe operaia» (CdS, 29 marzo 1911).
Il Socialismo non concepisce l’idea del progresso tecnologico e individuale come macchina generatrice di benessere. Crede che la torta sia una e che le fette vengano accaparrate solo da certe élite. Non crede che la torta si possa ampliare o che si possa fare una nuova torta con lavoro e fatica. La dottrina non analizza la capacità umana di creare, sperimentare migliore e moltiplicare le possibilità di successo e benessere. Per non sapere né leggere né scrivere, il Socialismo confisca: ruba ad alcuni per distribuire ad altri. E ammanta tutto con il concetto della giustizia sociale. La sua giustizia sociale. Il Socialismo «vuole sradicare dall’animo degli uomini i sentimenti di amore al denaro, alla ricchezza, l’istinto del risparmio, dell’accumulazione, della eredità», secondo Einaudi (La Cultura, XI, 1932). Vuole «attuare il suo ideale di vita con la forza» (ibid.). E l’uso di questa non porta alla prosperità.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su Immoderati)