Brutale, sadico e tirannico. Idi Amin ha segnato una generazione di ugandesi. Arrivato al potere mezzo secolo fa, il 25 gennaio 1971, come i colleghi dittatori del passato, la sua esperienza al vertice delle istituzioni ugandesi (fino al 1979) è stata relativamente breve, ma devastante sotto il profilo dei diritti umani, nonché quello economico e sociale. Quella di Amin era una dittatura spietata che si macchiò di crimini e violenze di ogni genere, persecuzioni etniche e religiose. Migliaia e migliaia di vittime: ancora oggi sono incalcolabili. Amnesty International le stima attorno al mezzo milione. Abbandonato dal padre, il giovane Amin crebbe con la madre e iniziò a frequentare la scuola islamica, religione a cui si sarebbe convertito, all’inizio degli anni Quaranta. Semi-analfabeta, riuscì ad entrare nella KAR, King’s African Rifles. Omaccione di due metri per centoventi chili, venne trasferito in Kenya e poi in Birmania durante la Seconda Guerra Mondiale.
Al termine del conflitto venne trasferito in Somalia, dunque nuovamente in Kenya. Nel frattempo, scalava con ambizione i gradi dell’esercito; proprio ad allora, si dice, adottò il soprannome di Dada. Considerato al tempo un soldato modello, tornò in Uganda a metà degli anni Cinquanta (quando ebbe trentacinque figli da cinque mogli). Poco dopo l’Uganda ottenne l’indipendenza dal governo di Londra ed entrò nella galassia del Commonwealth nel 1962. Il Primo Ministro del tempo, Milton Obote, promosse Amin capitano nel 1963, dunque comandante dell’esercito tre anni dopo. Dopo disastrosi fallimenti in un’operazione militare in Congo, Amin cadde in uno scandalo concernente diamanti e oro. Godeva però del supporto di Obote, di cui divenne praticamente il braccio destro. Obote si fidava di Amin, tanto da affidargli nel 1967 il controllo dell’esercito. Fomentando la collera tribale verso i suoi nemici, Amin fece eliminare i leader dell’opposizione e i “ribelli”.
La cosa allarmò Obote, che nel frattempo venne a conoscenza di dirottamenti di milioni di scellini dall’esercito alle tasche di Amin. Sollevò quindi dal ruolo di Commander in chief dell’esercito e si nominò Presidente fino al 1971. Nel gennaio di quell’anno, di ritorno da un incontro con i capi di governo del Commonwealth a Singapore, vide la sua nazione scivolare dalle mani di Amin che nel frattempo guidò un colpo di Stato. Il 25 gennaio 1971 i ribelli ruandesi aiutarono Amin a prendere il controllo del paese. Il massacratore ugandese fuse la carica di Primo Ministro con quella di Presidente. Cominciò così la dittatura di Idi Amin. In un primo momento, egli venne accolto positivamente da diversi paesi occidentali tra cui la Gran Bretagna, il Sudafrica, Israele. Con quest’ultimo però, i legami e le relazioni diplomatiche sarebbero state poi tagliate, viste anche le simpatie di Amin per l’Olocausto in Europa.
Amin promise di sbarazzarsi degli apparati corruttivi e del favoritismo che permeava la politica ugandese. Attratto dalle dottrine socialiste, promise fantomatiche elezioni, ma finì con l’allungare di cinque anni la vita del suo governo. Presto iniziò la dittatura, sotto cui squadroni della morte si riversarono nel paese alla caccia di oppositori politici e sostenitori di Obote, che nel frattempo si rifugiò in Tanzania. Amin avviò una grande purga nella burocrazia ugandese e rimpiazzò le già fragili istituzioni con la sua ingombrante figura. Violenze contro le minoranze e talvolta contro i civili divennero la norma nel suo regime. La paura del macellaio ugandese derivava da un istinto paranoico tipico dei dittatori: quello di essere spodestati. Un anno e mezzo dopo della presa del potere, Amin espulse le comunità asiatiche dell’Uganda, circa cinquantamila persone. L’accusa era che questi erano responsabili delle catastrofiche condizioni economiche in cui versava il paese.
Brutalizzazioni di ogni genere, sostituzione di ufficiali dell’esercito con contadini e allevatori, stupri, saccheggi, confische di proprietà privata divennero la cifra dell’Uganda di Idi Amin. Il quale, non contento di aver massacrato interi settori della sua popolazione, decise di massacrare anche l’economia. La sua tremenda incompetenza nel gestire la macchina dello Stato erano il rovescio di un’efficiente sistema del terrore e della repressione nel sangue. Particolarmente cruda fu la politica nei confronti degli ebrei del luogo. In quest’ottica si situò l’operazione Entebbe, dove tra i militari israeliani uccisi c’era anche Yonatan Netanyahu, fratello di Benjamin. Le relazioni diplomatiche e commerciali dell’Uganda del tempo furono in particolare con l’URSS, la Libia di Muʿammar Gheddafi e il Kenya. Il regime incrementò le spese militari che andavano nelle tasche dei big della burocrazia attorno al leader supremo, in un paese dove la gente moriva di fame.
Sempre più povero ed isolato a livello internazionale il dittatore si auto-conferì titoli e medaglie di ogni genere. Amin riteneva di aver rimpiazzato Elisabetta II come capo del Commonwealth. Si definì anche Re delle bestie del mare e liberatore dell’Africa. Questi deliri di onnipotenza gli impedirono di valutare le difficoltà legate all’invasione della Tanzania, una distrazione dal sapore nazionalista per dirottare l’attenzione popolare lontano dai disastri domestici. Nella primavera dell’anno seguente quando ormai tutto era perduto meditò di espatriare. Amin andò dall’amico Gheddafi, dunque nell’Iraq di Saddam Hussein, infine in Arabia Saudita. Le condizioni di salute del tiranno peggiorarono negli anni Novanta. Morì nell’agosto del 2003 a Gedda. Ancora oggi, è ricordato per la sua brutalità. Se ne andò lasciando un’inflazione oltre il duecento per cento e un debito pubblico di oltre trecento milioni di dollari. La povertà in Uganda, oggi, è anche il frutto delle scelte di Idi Amin.
Amedeo Gasparini
(Pubblicato su L’Osservatore)