La fine (percepita) dell’American Dream

In vista delle elezioni presidenziali americane del 3 novembre prossimo, possono tornare utili gli avvertimenti di Alberto Pasolini Zanelli in Americani, libro di trent’anni fa. «Gli americani han bisogno […] di essere costantemente incoraggiati. Uno dei compiti dell’uomo che abita alla Casa Bianca […] è quello, sacerdotale anzi pontificale, di incarnare l’American Dream, il sogno americano […], tenerlo vivo per tutti. Questo è anche, in fondo, il massimo dei suoi poteri». L’ufficio più importante della politica americana ha un potere immenso e al contempo limitato nei cardini della costituzione usa. Nel sistema americano il Presidente dovrebbe tenere in vita la fiaccola del sogno americano, la fiamma della speranza, della libertà, dei diritti umani, della responsabilità e dell’ottimismo. Tuttavia, qualcosa è andato storto negli ultimi anni. Oggi molti genitori credono che il futuro dei loro figli non sarà più florido rispetto al loro.

Molte madri e padri sembrano abbiano perso le speranze per un avvenire di successo e benessere per i loro figli. È davvero finita la stagione dell’American Dream? Al di là della frattura politica tra le due Americhe, una repubblicana e una democratica, a spaventare è la crisi sociale negli Stati Uniti, dove a troppi cittadini sembra che il raggio verde gatsbyiano non li aiuterà a fare carriera. L’American Dream è la promessa che con impegno, dedizione, sacrificio ed ottimismo ognuno può migliorare la propria condizione. L’American Dream è la materializzazione più visibile di uno dei cardini della Costituzione americana: il diritto alla ricerca della felicità. Il problema è che molti confondono questo diritto con il “diritto alla felicità”, che non esiste. Troppi credono che lo Stato debba farsi carico di chiunque sia infelice a causa della sua indigenza e che tutto debba essergli dovuto.

L’American Dream oggi non funziona perché non funzionano le premesse che lo avvererebbero. Pensare che la felicità sia garantita dalla Costituzione è un abbaglio che altro non fa che incrementare il livello di crisi identitaria e sociale nella popolazione. Si aggiunga poi, come ricorda Federico Rampini (Il tradimento) che «il pensiero politically correct, dominate fra i tecnocrati, e élite e tanta parte della sinistra di governo […] proibisce di usare aggettivi come “superiore” e “inferiore”. Ma questo è assurdo, perché rinunciando a stabilire gerarchie di valori precipitiamo noi stessi in un baratro d’insicurezza, smarrimento». Insicurezza e smarrimento non sono elementi coltivabili nell’ambito del sogno americano. L’egualitarismo forzato che intendono instaurare alcuni non farebbe che accentuare una già lacerante divisione sociale.

Nel 2009 il neopresidente Barack Obama varò una finanziaria di ottocento miliardi che fece aumentare il rapporto deficit/PIL del dodici per cento. Un intervento atto a salvare le banche, mentre molti risparmiatori andavano in rovina in parte a causa della facile e criminosa politica creditizia di alcuni istituti. Questo è apparso inaccettabile agli occhi di molti, indignati dalle malefatte “dei banchieri”. Che fine aveva fatto l’American Dream se poi i non meritevoli venivano salvati dallo Stato? Fu così dunque che molti americani – specialmente i bianchi del Sud, al contempo beneficiari della Obamacare – nel 2016 hanno votato per Donald Trump (che prometteva loro di abolirla). La crisi sociale originata dalla mancanza di prospettive future – del rinnovo dell’American Dream – impedisce a molti di vedere contraddizioni come questa. I fallimenti dei predecessori di Trump sono parte della spiegazione del perché il tycoon è arrivato alla Casa Bianca.

Molti sono più delusi da Obama che da Bill Clinton. Il quale non solo diede il pardon presidenziale ad un amico condannato per evasione e al fratello per questioni di marijuana. Fu altresì il grande artefice dello smantellamento delle regolamentazioni bancarie negli anni Novanta, cosa che ha gettato i semi per la crisi del 2007-8. Obama non ha chiuso la prigione di Guantanamo. E sebbene l’accordo di Parigi sul clima del 2015 remò in una direzione positiva, non si è speso per una “Kyoto 2.0” e non ha portato una pacificazione sociale nella terra della “Walmart society” (Walmart è il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti, con una paga media di 8.8 dollari all’ora). Paradossalmente, il presidente eletto per curare la cosiddetta “questione razziale” in America ha finito col curare di più l’economia. E di questo ha poi ha beneficiato il suo successore.

Tematica ricorrente, che allontana il concetto di sogno americano e di speranza, è la diseguaglianza nel paese. Diseguaglianze eccessive – e frutto di un’accumulazione oligopolitisca (che più che frutto del libero mercato ne sono una distorsione) – non lasciano che speranze astratte pure a chi crede nellAmerican Dream. «Nel 1980 l’uno per cento più ricco deteneva il 10 per cento del reddito totale, oggi il doppio», ha scritto Alberto Alesina (Corriere della Sera, 15 febbraio 2020). «La metà più povera deteneva […] il 21 per cento del reddito totale, oggi […] il 13». Secondo Timothy Snyder (The Road to Unfreedom) nel 1978 lo 0.1 per cento della popolazione controllava il sette per cento della ricchezza americana. Nel 2012 il ventidue: Se nel 1978 lo 0.01 per cento della popolazione era 222 volte ricca rispetto al cittadino medio, nel 2012 lo era 1120 in più.

Le delusioni di Obama, la fine del “momento unipolare” post-Guerra Fredda, il pantano e lo spreco di soldi nelle guerre in Medioriente, l’ampliarsi eccessivo delle diseguaglianze, una retorica ipocrita ed élitaria di alcuni circoli, le tensioni razziali e le ondate migratorie sono tra fattori che hanno accentuato una crisi sociale, ancor prima che economica, in diversi strati di una popolazione che non crede più nel sogno in cui credevano i suoi genitori e nonni. Tra il 2000-2016 un americano su due non ha visto alcun aumento del reddito. Alexis de Tocqueville disse che l’intera società americana sembrava essersi sciolta assieme in un’unica classe media. Due secoli dopo, quando la borghesia è stata spazzata dalla crisi economica e l’American Dream sembra aver premiato solo i miliardari. Un sentimento di sfiducia collettiva è comprensibile, ma per ricostituire il sogno americano non è mai troppo tardi.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su Corriere dell’Italianità)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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