Roberto Gervaso, ricordi di un provocatore sarcastico

Chissà dove sarà Roberto Gervaso. Lo sentii l’ultima volta a inizio febbraio. Sapeva che di lì a poco avrebbe incontrato la morte, figura che certamente non si sarebbe fatta intervistare e che lo avvisò tramite la recente ed inspiegabile ricomparsa del tumore. Penna apprezzata sin dall’inizio degli anni Sessanta anche per la sua divulgazione storica, Gervaso è scomparso all’età di ottantadue anni. Sceso dal podio terrestre dei grandi del giornalismo, per ascendere all’olimpio di quelli dell’Aldilà. Alla nera signora, Gervaso aveva dedicato molti aforismi in La vita è troppo bella per viverla in due, tra cinismo e sarcasmo. «Solo da morti sapremo perché siamo nati» (gli auguro di aver scoperto il grande mistero). «Ogni volta che chiudo gli occhi, mi domando se li riaprirò» (spesso ironizzava a proposito della sua salute cagionevole).

«Ho un tale bisogno di amarmi che non mi lascerò mai» e «morirò soltanto quando non avrò altre scelte». Ma soprattutto, «vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma anche come se fosse il primo». Che vuol dire vivere il presente, con lo sguardo verso il futuro, in piena pragmaticità gervasiana. «Ciao amico mio! Sono a disposizione!» La voce rauca di Gervaso era particolarmente squillante in quel fine agosto 2017. Per telefono, il primo impatto con lui è stato particolarmente felice. Fissammo un incontro per un’intervista a Milano, per il 29 settembre successivo. Allora, nella capitale lombarda, Gervaso era tornato da poco; aveva trovato casa sul versante Est della città, in un grazioso vialetto American style. Parcheggiai la sgangheratissima MiniCooper nella zona gialla. Alle 17 entrai al numero cinque del piccolo vicolo milanese. Puntuale, salii al primo piano.

Roberto Gervaso mi accolse di persona. A braccia aperte, mi impose sin da subito di dargli del “tu”. Mi spiegò di lì a poco, pochi giorni prima erano venuti a fargli visita i ladri. Chiacchierammo per quattro ore. Del nostro incontro nel settembre 2017 ricordo i molti consigli quasi “nonneschi” per la vita e l’avvenire lavorativo. «Quando scrivi devi sempre avere il Cinti Decio sottomano: i sinonimi sono importanti». E ancora: «Leggi i classici! Quelli non tramontano mai». Poi un avvertimento, riportato anche nella raccolta dei suoi aforismi. «Il giornalismo è una carriera per i furbi e i mediocri. Un servizio per i bravi e responsabili. Una missione, per pochi eletti». L’intervista che gli feci, in realtà la diresse lui. Curioso il suo ritmico tamburellare dei piccoli piedi nelle scarpe di pelle sul parquet. Prima di accendere il registratore, passammo in rassegna tutti i grandi del giornalismo italiano.

L’ora e venti di pre-intervista iniziò con l’elogio alla tetrarchia di maestri del mio ospite: Curzio Malaparte, Leo Longanesi, Giuseppe Prezzolini, Indro Montanelli. Poi tutti i grandi del mestiere, che Gervaso aveva conosciuto. «I grandi uomini è meglio vederli da lontano che da vicino», scrisse. Ma al contempo «visti da vicino, ti fanno passare la voglia di essere come loro». Nato a Roma nel 1937, si trasferì a Torino. Da un barbiere un giorno sulla terza pagina del Corriere della Sera lesse “Polli a Cinecittà” di Montanelli. Folgorato dalla scrittura del fucecchiese, volle conoscere quest’ultimo, che lo ricevette poco dopo a Roma. Erano i primi anni Sessanta. «Da allora Montanelli mi prese sotto le sue ali», mi spiegò nell’intervista. «Ero come un figlio per lui. Un giorno mi mise una mano sulla spalla in Corso Umberto e mi disse: “Robertino, facciamo insieme la Storia d’Italia?”».

In seguito, i due si separarono e per oltre un decennio non si sentirono a causa dell’adesione di Gervaso alla P2. «Entrai nella loggia perché volevo intervistare Licio Gelli», mi disse. Il rapporto riprese anni dopo tramite con uno scambio epistolare. Gervaso è sempre stato grato a Montanelli di cui, sulla tavola da pranzo, conservava una grande foto con dedica e firma autografa. Con il principe dei giornalisti Gervaso condivideva la passione per la polemica, l’amore per le controversie, le provocazioni intelligenti. Entrambi hanno dedicato fiumi d’inchiostro all’homo italicus e all’Italia, definita da Gervaso nel nostro colloquio come «un bordello, un caravanserraglio, una latrina, un manicomio, un luna park, un circo equestre, una cinghialaia». Sulla personalità di molti italiani ha scritto libri al confine tra satira e sociologia, il tutto espresso con graffiante sarcasmo.

Gervaso definiva i suoi compatrioti «pecore anarchiche». Tanto è vero che anche in diversi altri colloqui che abbiamo avuto mi disse che voleva ritirarsi in Svizzera, il paese dell’emmental, il suo formaggio preferito. Gervaso era affascinato dal senso di unità degli svizzeri, omogenei nella dedizione verso i propri doveri cittadini. Per il luogo dove morì Prezzolini ha sempre avuto parole di stima. «Lugano è una città civile, mi piace; Lugano è bella. Sono anni che non ci vado», mi disse. E dal nostro primo incontro milanese nacque l’idea di organizzare una conferenza nella città sul lago tra il Verbano e il Lario, per presentare il suo ultimo libro, Le cose come stanno, nel marzo 2018, presso l’Auditorium dell’Università della Svizzera Italiana.

«Non ho mai firmato così tanti libri in vita mia», scherzò al termine della conferenza. A Gervaso, provocatore di prima classe, piaceva l’esagerazione. Nella sua vita ha avuto trecento papillon, cento cappelli (rigorosamente Borsalino) e, a suo dire, duecento donne. Gli piaceva fare lo show e mettersi in risalto. Essere considerato controverso, caustico, cinico e colto; elementi che forse erano dovuti alle tre depressioni che l’aforista-scrittore ha avuto nel corso della sua vita. E poi le centinaia di articoli, commenti, libri, biografie, saggi. Gervaso ha scritto tantissimo: leggendarie le sue interviste “brevi”, così come i ritratti dei potenti e dei potentati, dipinti in maniera irriverente e grottesca. Sempre costruendo, a sua volta, il personaggio che amava recitare e presentare al pubblico: se stesso. «Di macchine da scrivere ne ho dodici, perché non so usare il computer», nonostante “gervasodanotte” fosse il segmento iniziale dell’indirizzo e-mail che non usava mai.

Preferiva il rumore dei tasti dell’Olivetti. Del suo Maestro Montanelli (che lo ebbe come suo unico e riconosciuto pupillo, nonostante gli odierni self-appointed “eredi di Montanelli”) conservava una delle tre preziose macchine Lettera 22 in circolazione. Durante la nostra intervista, gli chiesi se potessi vederla: rossa, piatta; una reliquia. Un’altra Olivetti montanelliana l’avevo vista mesi prima nell’ufficio-“museo” di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano. «La terza forse ce l’hanno forse o Vittorio Feltri o Letizia Moizzi», mi spiegò. Le sue preziose macchine da scrivere, l’autore di Cagliostro le teneva in un piccolo stanzino dell’appartamento milanese, ma è in salotto che conservava il pezzo grosso: la Underwood su cui Ernst Hemingway batté Il vecchio e il mare. Nera, elegante, imponente. «Un bel cimelio, eh?», mi disse, tra l’ironia e il sarcasmo. Chissà dove l’avesse trovato … Chissà che fine farà, ora che il suo padrone non c’è più.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su L’Osservatore)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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