Antonio Polito e la grande illusione dei post-comunisti

Nel suo Il Muro che cadde due volte (Solferino 2019) Antonio Polito ha avuto il coraggio di guardarsi allo specchio. E parlare con sincerità al lettore, riconoscendo l’illusione comunista in cui ha creduto sin da ragazzo. Illusione che molti giustificano ancora oggi. Non si tratta solo di prendere le distanze dal Comunismo in sé dicendo che quello manifestato in Unione Sovietica «non era il vero Comunismo». A nessuno verrebbe in mente di dire che quello hitleriano «non era il vero Nazismo», ma si tratta di prendere le distanze dal Comunismo italiano. Ancora molti in Italia rivendicano con orgoglio l’ideologia sovietica in salsa mediterranea, diversa da quella oltre-cortina, ma pur sempre facente riferimento a falce e martello. Polito analizza e cerca di dare spiegazioni in merito alla transumanza ideologica che ha preso corpo dopo la caduta del Muro di Berlino. Dal Comunismo al liberalismo.

Un paradosso? Quasi. Una “fuga nell’opposto”. Il libro del vicedirettore del Corriere della Sera è un viaggio personale ed intimo tra le pareti della propria biografia costellata da eventi straordinari. Non solo la caduta del Muro, ma anche i suoi esordi nel PCI campano e all’Unità. Poi il passaggio a Repubblica, la corrispondenza da Londra, l’avventura de Il Riformista. Questo, «fondato […] con il progetto di affermare una svolta blairiana anche in Italia». «I miei coetanei» scrive Polito, «videro morire definitivamente la grande illusione cui avevano fatto appena in tempo a partecipare, quella del Comunismo, ma poiché non potevano vivere senza un’illusione la sostituirono […] con un’altra». È questo l’asse portante dell’opera dell’autore che non distingue tra liberalism (liberalismo da Terza Via, “sociale”, di centrosinistra, quello democratico americano) e western liberalism (liberalismo classico, occidentale, smithiano, di centrodestra).

Ma la sua autocritica è autentica: «ero comunista quando il Muro crollò». E ogni calcinaccio che veniva frantumato da piccone e martello rappresentava un passo verso la libertà. «Vissi quelle giornate in preda a un’eccitazione senza precedenti». Senza negare la sua adesione a «quel mondo», Antonio Polito non sa oggi spiegare come mai scelse la strada del Comunismo in gioventù. Un «demone che si era impadronito di me». Polito smantella un tabù. Critica la diversità ambigua e di comodo del Partito Comunista Italiano. «Nonostante i tragici insuccessi del Comunismo, sempre “comunista” si chiamava il mio partito in Italia. E noi che vi avevamo aderito non potevamo certo esserne inconsapevoli, come qualche ex dirigente ha poi provato a far credere, per tirarsi fuori dalle responsabilità collettive e dalle minacce di quel mondo». Polito spiega come molti giovani della sua generazione avessero scelto il PCI come una via per la modernizzazione.

Un nuovo orizzonte proletario, sebbene i piccoli rivoluzionari di allora dell’italico “Gramscian-comunismo” erano più che benestanti. «Venivamo da famiglie borghesi, da educazioni borghesi, da amicizie borghesi». Prima dell’adesione al PCI, Polito era stato nella sinistra extraparlamentare, presso il Partito Comunista Marxista-Leninista. La cui sezione campana era basata sui «“disoccupati organizzati”, giovani proletari senza lavoro in cerca di un’assunzione al Comune o alla Provincia (allora era l’equivalente del “reddito di cittadinanza”), e sempre pronti a fare a botte con la polizia». In sezione si leggevano le opere di Mao Zedong o Enver Hoxha, ma vista la frequentazione del borghesissimo circolo di tennis, l’adesione di Polito al nucleo comunista venne presentata come incompatibile. Preferì lo sport al partito. E fece bene.

S’iscrisse dunque al PCI nel 1971 («volevo “fare qualcosa” e la volevo fare a sinistra»). Complici il Sessantotto e l’amicizia con Giorgio Napolitano. «Credevamo nel Comunismo» e «bramavamo di vedere la storia in movimento, e pretendevamo di farne parte. Il Marxismo ci aveva offerto l’illusione più inebriante di riuscirci». Alla caduta del 1989 Polito ammette: «scegliemmo la democrazia liberale, il mercato, l’Europa unita». E fu così che gli avversari della Comunità Europea e della NATO abbracciarono l’occidentalismo. La necessità era quella di «provare a non restare indietro per l’ennesima volta. Bisognava evitare di cadere nella semplificazione […] secondo la quale l’idea di sempre, quella originaria, era ancora valida, ma era stata corrotta e tradita prima dallo stalinismo e poi dai regimi dell’Est; e bastava dunque ripulirla e riformarla». La generazione dei trentenni di allora pensava che bisognasse impugnare la bandiera del libero mercato.

Da qui tutto il discorso della Terza Via di Tony Blair, Gordon Brown e Peter Mandelson, massimi esponenti del liberalism (opposto al liberalismo degli «anni bui di John Major»). Oggi assistiamo al «ritorno dei nazionalismi e all’affermarsi delle democrazie illiberali, […] alla rivolta popolare contro il capitalismo di mercato e transnazionale». Caduto il Muro del Comunismo, oggi anche quello del liberalismo mostra delle crepe. Una delle ragioni principali è il ruolo ambiguo e di comodo di molte élite miopi che negli ultimi trent’anni hanno governato professandosi liberali (in realtà liberal), deregolamentando ogni vincolo al liberissimo mercato. Si veda il caso di Bill Clinton con la Glass-Steagall Act che contribuì a gettare le premesse per la crisi economico-finanziaria del 2008. Polito sottolinea come molte classi dirigenti liberali si siano “addormentate” dopo aver vinto la Guerra Fredda. Il risultato, non sorprendente, è il fiorire post-crisi dei movimenti populisti di destra e di sinistra.

Preoccupate oggi è il fascino che esercitano le democrazie illiberali o autoritarie. Dove il potere legislativo viene annientato e incorporato in quello esecutivo e quello giudiziario è il “braccio armato” di quest’ultimo. «Una democrazia non è necessariamente liberale», ha detto del resto Viktor Orbán, piccolo regnante post-austroungarico. Il riflusso autoritario era stato però previsto già da Samuel Huntington, confermato da Foreign Affairs che recentemente ha calcolato che i regimi illiberali costituiscono un terzo del PIL mondiale e a breve saranno la metà. Si aggiunga poi che negli ultimi trent’anni è sorta una vuota e retorica adulazione nei confronti dell’UE. Abbracciata acriticamente nel post-1989 da chi l’ha combattuta, l’UE è diventata il sancta sanctorum che ha impedito a molti di vedere le crepe del liberalismo sui cui essa in parte si fonda. Per chi aveva aderito al PCI, oggi l’UE è diventata la nuova utopia, un nuovo totem.

«Avremmo dovuto difendere l’Europa come progetto pragmatico ed efficace, e invece la caricammo di significati palingenetici e avveniristici». Oggi siamo nell’età dei muri: sette in costruzione, dieci volte tanto già eretti. Il «nuovo internazionalismo che si fondava proprio sui diritti umani, e cominciava a definire un dovere delle democrazie di intervenire per proteggerli laddove erano violati dalle dittature» è ancora possibile. Bisogna solo aggiornarsi per essere più competitivi nei confronti dei nuovi autoritarismi. La libertà deve vivere, perché «sarebbe davvero paradossale se da liberali finissimo per compiere gli stessi errori fatali che tanti di noi, sessantottini o giù di lì, commisero da comunisti». Infine, «oggi ci domandiamo se […] siamo condannati a vivere un secondo passato da sconfitti: allora da comunisti, oggi da liberali». Il Comunismo è morto, ma il liberalismo è malato: il che non vuol dire che è morto. Vuol dire che è da curare e va curato.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su La Voce di New York)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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