Mario Draghi, l’italiano così rispettato quanto temuto

«Mario Draghi avrà un successore, non sarà sostituito», ha detto Pierre Moscovici qualche mese prima della fine del mandato dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea. Le parole dell’ex commissario per gli affari economici e monetari riassumono il lascito non di un semplice burocrate, ma di un convinto europeista, un leader calmo e pacato. L’artefice (Rizzoli 2019) di Jana Randow e Alessandro Speciale non è solo una documentata cronaca della storia economica dell’Eurozona dell’ultimo decennio. È anzitutto il ritratto intimo e biografico di un italiano di rilievo nella scena internazionale. «Non accetto etichette. Presento fatti», aveva dichiarato Mario Draghi qualche anno fa a Die Zeit. Nato il 3 settembre 1947, orfano sin dall’adolescenza, Draghi si è diplomato al liceo gesuita Massimiliano Massimo di Roma. Tesi di laurea nel 1970 alla Sapienza con Federico Caffè.

Poi il dottorato in concomitanza con insegnamento e lavoro al MIT di Boston; compagno di classe di Oliver Blanchard e Francesco Giavazzi. Nel 1977 è stato il primo italiano a conseguire il dottorato in economia al MIT, cosa che gli ha aperto le porte per l’insegnamento nelle università di Trento, Padova, Venezia e Firenze. Consulente per il Ministero del Tesoro, in seguito direttore generale dello stesso. Consulente economico di Bankitalia nei primi anni Novanta, Mario Draghi decise di trasferirsi ad Harvard, divenendo direttore della divisione internazionale di Goldman Sachs nel 2002. Dopo la caduta di Antonio Fazio dalla Banca d’Italia, Silvio Berlusconi si rivolse a lui come probabile successore. Detto fatto: “Super Mario” passò a Palazzo Koch nel dicembre 2005. L’ipotesi della sua candidatura al vertice della BCE iniziò a circolare nel settembre 2009.

Ma solo il 24 giugno 2011 che la nomina è stata ufficializzata. Draghi non viene dal nulla: si è costruito per (e nei) decenni. I summit e i convegni internazionali se li è fatti tutti: sempre con umiltà e discrezione. Nella prefazione de L’artefice, Christine Lagarde – successore di Draghi all’istituzione di Francoforte – ha definito la gestione Draghi della BCE con tre elementi. Intelligenza, integrità e leadership. Caratteristiche essenziali nell’Executive Board, il cui compito è mantenere la stabilità dei prezzi nell’Eurozona. Tuttavia, il target dell’inflazione al due per cento non è stato raggiunto in molti paesi dell’area Euro. La colpa non è di Draghi, sotto il cui mandato il carovita si è attestato in media all’1.2 per cento. Quanto di chi, negli esecutivi nazionali, non ha sfruttato la massa monetaria in circolazione grazie al Quantitative Easing.

Il QE ha permesso negli anni l’acquisto di diversi asset per un valore di 2500 miliardi di Euro, scatenando l’ira di molti che hanno accusato la BCE di voler provocare un’inflazione galoppante. Profezia errata, perché «senza il sostegno della BCE oggi la crescita sarebbe molto più debole», avvertono Randow e Speciale. Aspri non solo i rapporti di Draghi con il mondo finanziario germanico, ma ancora di più quelli con la stampa tedesca. «L’acquisto di titoli di Stato è la peggiore violazione inimmaginabile dell’indipendenza della BCE», tuonò una volta Die Welt. «Basta dare i soldi agli stati in bancarotta, Herr Draghi», starnazzò Bild. Handesblatt illustrò Draghi mentre si accende un sigaro con una banconota da cento Euro. Un ruolo di peso, nell’Odissea draghiana all’interno della Banca Centrale, è stato quello di Jens Weidmann, Presidente della Bundesbank.

I critici di Draghi provengono specialmente da Germania e Olanda (i «dissidenti cronici») dove l’ex Presidente della BCE «è stato accusato di essere in parte responsabile dell’avvento del populismo». L’accusa principale è quella che Draghi avrebbe tenuto i tassi d’interesse bassi per favorire le economie di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. Tuttavia, a frenare tali accuse, è stata Angela Merkel, con cui Draghi ha sempre avuto un’intesa immediata: tra i due c’è stima solida e autentica. Nonché confidenza. «Draghi ha saputo indicare una via pratica per uscire dalla crisi». Il suo «Whatever it takes» è nell’olimpo delle dichiarazioni celebri dei grandi leader europei. «Un colpo da maestro», come ha detto uno dei mentori di Draghi, Stanley Fisher, ex Vicepresidente della FED.

Era a Londra quando colse alla sprovvista il gotha della finanza mondiale, dicendo che la BCE avrebbe fatto di tutto per salvare l’Euro. «E credetemi: sarà sufficiente». Randow e Speciale rivelano anche gli aspetti del “Draghi segreto”: abitudini e routine dell’ex numero a Francoforte. Mario Draghi odia le perdite di tempo, tanto è vero che ha regolato il suo orologio cinque minuti in avanti. Preferisce incontri brevi e mirati (preferibilmente vis-à-vis), è attento ai dettagli, capisce l’umore dell’interlocutore ed è «votato alla religione del lavoro». Intollerante con gli sciocchi, appare poco in pubblico, «badando a non “diluire il marchio Draghi”». «Draghi ascolta tutti, ma al momento di tirare le somme decide di testa sua». Come è cambiata la BCE sotto l’era Draghi? Tanto. Se il QE era malvisto fino a pochi anni fa, oggi sembra necessario. L’influenza dell’istituto di Francoforte si è ampliata, specialmente nel mercato obbligazionario.

Chi non è cambiata, viceversa, è l’Italia, il paese che ha espresso Draghi al vertice della BCE, con un PIL crollato del dodici per cento dal 2011 al 2019. L’ex governatore ha sperato a lungo che l’Italia approfittasse delle politiche monetarie favorevoli della BCE. Così non è stato. Per Draghi, l’instabilità politica del suo paese d’origine è stata «un mal di testa costante». Frustrante per Draghi è «il fatto che l’Euro sia diventato il bersaglio della disperazione e della rabbia di tanti italiani per il susseguirsi di crisi, […] promesse disattese di riforme e declino negli standard di vita». Durante il suo mandato, Mario Draghi non ha solo gestito con efficacia la politica monetaria della zona Euro in anni difficili. In ’epoca dell’imprevedibilità statunitense, dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE, del dilagare dell’influenza cinese e del fascino per i regimi illiberali, è riuscito a mantenere un notevole equilibrio.

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su La Voce di New York)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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