Sean Spicer e il suo briefing con il pubblico

National Press Building di Washington DC, tredicesimo piano, Associazione Nazionale della stampa. Appesi ai muri dei corridori, le foto dei grandi giornalisti americani. I più noti all’audience straniero, Bob Woodward e Carl Bernstein, ma anche personalità del mondo dello spettacolo, della politica, dello sport, della musica e del giornalismo. E poi una foto di Donald Trump, datata 27 maggio 2014: “A great place. Best wishes”. Segue la firma, simile ad un sismogramma. Nessuno poteva immaginare che, due anni e qualche giorno dopo la sua visita al Palazzo della stampa l’allora palazzinaro newyorkese avrebbe annunciato al mondo la sua discesa nell’arena politica. A supportarlo sin dall’inizio, il fido Sean Spicer. Quarantasei anni, residente ad Alexandria, sposato, di origini irlandesi, fermamente cattolico, negli anni Novanta lavora fianco a fianco con esponenti repubblicani.

Negli anni Duemila approda sulla scena nazionale. Direttore della Comunicazione del Comitato Nazionale Repubblicano dal 2011 al 2017, chief strategist dal 2015 al 2017. Il 22 dicembre 2016 viene scelto da Trump come Press Secretary della Casa Bianca. Considerato uno dei più vicini al presidente, oggi presenta il suo The Briefing. Politics, the Press, and the President. «Un’esigenza», quella di Spicer, di divulgare dalla sua vedetta mediatica non solo le scelte impulsive di un Presidente controverso, ma anche i sentimenti di un uomo che appare ogni giorno sui media. Incalzato da Andrea Edney, Presidente dell’Associazione Nazionale della Stampa dal 10 febbraio scorso, Spicer presenta spiega che il libro «è il frutto di una grossa riflessione, una storia personale».

«Ho scritto questo libro perché la gente sa poco di me e soprattutto di quello che credo. Con questo libro voglio essere sicuro che tutto quello che ho detto e fatto durante il mio servizio alla Casa Bianca sia documentato». E infatti «il processo di scrittura è stato molto lungo», perché «ho dovuto parlare con tante persone per confermare i fatti e vedere cosa si ricordavano». Spicer ha iniziato a scrivere il suo libro nel dicembre 2017. Poco dopo che Anthony Scaramucci divenne il suo boss, spiega Spicer, «ho deciso di raccogliere il materiale e ho chiesto al Presidente il permesso di farlo». Incurante ed esagerata come molte delle sue affermazioni, la risposta è stata semplicemente: «Great». E «il Presidente mi ha incoraggiato a farlo», spiega Spiecer di fronte ad un pubblico esterrefatto.

Trump è apertamente ostile a gran parte della stampa e la gran parte della stampa ricambia. Egli ha “endorsato” la pubblicazione di Spiecer via Twitter il 30 giugno 2018. «A friend of mine and a man who has truly seen politics and life as few others ever will, Sean Spicer, has written a great new book, ‘The Briefing: Poltics, the Press and the President.’ It is a story told with both heart and knowledge. Really good, go get it!». E «dopo sei mesi di ricerca e confronti di materiali con diverse persone», il libro è pronto. Alla stampa, al Presidente e al popolo americano, spiega Spicer, «non ho mai mentito». In quella posizione «non si può mentire, perché se no si dura poco». E in effetti Spicer non è durato molto, ma insiste comunque a dire che non ha mentito.

Dall’insediamento di Trump, 20 gennaio 2017, sino al 21 luglio, è stato il ventottesimo Press Secretary. Una posizione che Spicer definisce come un mix tra un artista sul filo del rasoio, un pilota di jet e un campione di box. Sean Spicer difende Trump sin dal primo giorno. Tutti ricordano la sua celebre gaffe sulle immense folle che avrebbero partecipato all’inaugurazione della Presidenza. Spicer ricorda l’episodio. «Qualche minuto dopo il presidente stesso mi chiamò e non era felice. Iniziai a pensare che il mio primo giorno sarebbe stato anche l’ultimo. Era l’inizio della fine». Ma per la vera fine avrebbe dovuto aspettare giusto giusto sei mesi. Nonostante Spicer dipinga Trump come «un uomo dall’istinto e dai sentimenti cristiani» non risparmia lo stesso da critiche.

Per l’Press Secretary il Presidente deve essere per forza «un unicorno. Un unicorno che galoppa sull’arcobaleno». E aggiunge: «Non penso che vedremo mai più un candidato come Donald Trump». Del quale Sean Spicer ricorda la «sincera empatia della sua voce.. Un qualcosa che non dimenticherò mai». Ad ascolta Spicer è naturale chiedersi come mai si sia dimesso, visto che gli elogi nei confronti del Presidente superano di gran lunga le critiche. Quello che emerge dalla conferenza è che Spicer è combattuto. Non ha problemi a elogiare il salesman della White House, ma ne ricorda i lati vendicativi. In un’intervista rilasciata a Joe Heim per The Washington Post Magazine del 29 luglio scorso, Spicer spiega che Trump è «un combattente da strada, dalla mentalità combattiva. Se lo colpisci, lui ti risponderà».

Dopo la domanda provocatoria di Edney, l’autore si dice «personalmente preoccupato del Primo Emendamento». Tutti, argomenta «sono preoccupati per i giornalisti e i cittadini americani, così come per gli ufficiali e le altre categorie. Ma nessuno è però preoccupato – o si fa carico di difendere – i supporter di Trump». Alludendo all’informazione «biased» dei media, «nessuno prova rammarico o è preoccupato in termini di Primo Emendamento di chi va in giro con una maglietta o un cappellino di ‘Make America Great Again’». Sean Spicer si chiede come mai tutti esprimano solidarietà e diritto di parola per i giornalisti e la stessa libertà non venga riservata agli elettori di The Donald. Secondo Spicer, la stampa stessa dovrebbe «esprimere qualche rammarico per questa situazione».

«La stampa è come nemica del popolo americano?», incalza Edney. «No», risposta secca, quasi infastidita di Spicer. Che ripete per tre volte che «ci sono ottimi giornalisti che aiutano la democrazia nel nostro paese». Secondo Spicer, il giornalismo deve essere fact-based. Non fa mistero del fatto che, assieme al mondo e alla Presidenza degli Stati Uniti, «è cambiato anche il rapporto e il comportamento dei media». Spicer allude in particolare al New York Times, al Washington Post e ai canali tv ABC News e CNN di essere cambiati. “Ora”, secondo Spicer, “arrivare per primi alla notizia e in maniera sensazionalistica è meglio che divulgare la verità.” Quello che però Spicer omette durante la conferenza è che sin dal febbraio 2017 la Casa Bianca ha selettivamente bloccato l’ingresso di testate quali Washington Post, New York Times, Los Angeles Times, Politico.

Molti hanno accusato Spicer di essere l’esegeta, l’interprete dei Tweet presidenziali. Il Grande Rettificatore. «Non l’ho mai fatto», smentisce. Il futuro di Sean Spicer è ancora incerto. Lo stesso non è molto chiaro al riguardo, nonostante le elezioni di mid-term si avvicinino. Spicer non rifarebbe l’esperienza di Press Secretary. Ricorda: «il mio compito era dare consigli», ma alla fine «era il Presidente che, ovviamente, decideva». Perché «lui è il Presidente degli Stati Uniti». Tutto sommato, conclude, «penso che come sempre avrei potuto migliorare qualcosa durante il mio servizio alla Casa Bianca».

Amedeo Gasparini

(Pubblicato su amedeogasparini.com)

Pubblicato da Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, class 1997, freelance journalist, managing “Blackstar”, amedeogasparini.com. MA in “International Relations” (Univerzita Karlova, Prague – Czech Republic); BSc in “Science of Communication” (Università della Svizzera Italiana, Lugano – Switzerland)

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